Tra il serio e il faceto

Caro Bruno, splendido ottuagenario…

Caro Bruno, splendido ottuagenario,
Lo sai qual’ è l’età più bella? Te lo dico io qual’ è ….è quella che uno ha, giorno per giorno!” Dino Risi, il sorpasso, 1962.
In chi, seppure di poco, è più giovane, viene un senso di nostalgia per l’epoca del Tuo passato, il che indurrebbe a pensare a un’età così ben spesa dal punto di vista professionale, e non solo.
Tutto questo, e già questo, giustifica una toga d’oro festeggiata nello splendido sole di quel dicembre e accompagnata, lo ricordo bene, da champagne e ostriche, in una baracchina natalizia in piazza Minghetti.
D’altronde, nelle nostre conversazioni, io riconosco in Te un vero intellettuale, e in tempi di web sarebbe già tanto, ma soprattutto, parafrasando au contraire Gramsci, un intellettuale non “organico”, tantomeno tradizionale.
Semplicemente, organico a sé stesso, libero e “curioso nel suo erratico curiosare”.
Non alludo alle Tue attuali note esperienze internazionali, ma alle adolescenziali scorribande nelle aule dove si dovrebbe fare e vivere giustizia, e laddove Santoro-Passarelli e, per me, Antolisei sarebbero stati solo un incipit (per carità, necessario) a una vita forense realmente vissuta e appassionata di tutto.
Un dato paradossale, che dice molto del Tuo eclettismo mai ostentato.
Tu, erudito ed elegante dissertatore, dedichi solo nove (nove!) righe su ben cinque pagine alla Tua importante esperienza internazionale davanti alle Corti Europee, ricordando invece con tenerezza i tempi grami degli inizi, comuni a quasi tutti noi.
Quando leggo i curricula di certi nostri colleghi, può accadere esattamente il contrario: cinque pagine sono dedicate alle proprie esperienze difensive, spesso con l’“eleganza” dell’autocitazione non solo del risultato, ma anche con l’invasività di rendere edotti del chi e del come era coinvolto: le eventuali righe rimanenti sono dedicate alla propria bibliografia e alle entusiastiche recensioni dal Web.
D’altronde, ambire a una conoscenza ad ampio spettro è l’unico modo di reagire alla facile e anonima “tuttologia” dei social, dove la presunzione di sapere tutto si trasfonde nella confusione populista del dar voce, anonima, a chiunque la pretenda.
Ora, premesso che ben più autorevolmente è stato detto che chi nel corso del tempo non cambia idea non cambierà mai nulla, mi investi, il che mi onora, di un quesito medico-psicoanalitico di non poco momento, e che posso riassumere così:
Dott. Magnisi, invecchiando, mi sento affetto dalla sindrome del Pubblico Ministero…sto diventando colpevolista! Cosa posso fare?
Rispondo da psicoanalista.
Gentile Bruno, coltivare la curiosità e, dunque, il dubbio per tutta una vita non è una malattia.
Bene lo dice Cartesio, il dubbio è l’inizio della conoscenza: per tacere di Oscar Wilde, ancora più crudo, “essere sul chi va là è vivere, farsi cullare nelle certezze è morte”.
Lei, al paziente si deve sempre dare del Lei, ritiene che sofferte e meditate ricerche la stiano trasformando in un colpevolista e, dunque, in un pubblico ministero…
Ma suvvia, si tiri su: pensi a Kafka e alla sua metamorfosi, ben più scioccante!
Torni al passato, quando i magistrati, forse addirittura dei pubblici ministeri, la invitavano per il doppio: tutti rispettosi dei diversi ruoli, tenuti ben distinti dalla vita privata.
Si, lo so: Lei può ricordarmi di un triste aneddoto, da me non vissuto personalmente, ma tramandato di generazione in generazione nei corridoi dei diversi tribunali del tempo.
Traditur che compagni di classe, un tempo amici di risate, sogni e amori si siano ritrovati, dopo la laurea in giurisprudenza, l’uno avvocato, l’altro PM: ebbene, da quest’ultimo è venuto l’invito al primo (mediante ordinanza o decreto?) di passare al “Lei” anche nella vita quotidiana fuori dalle mura forensi.
Ebbene, la tragica idiozia dell’uno, e la conseguente indotta solitudine, non deve contagiare la categoria: la mia impressione è che, usando le Tue espressioni, e tornando al TU, una parte dell’“opposta fazione” dei Magistrati oggi si senta assediata, pur, io credo, non essendolo.
L’argomento sarebbe troppo serio da essere affrontato in una conversazione tra “il serio e il faceto”.
La curiosità e la conseguente regola del dubbio sono un grande vaccino rispetto a giustizialismi, sempre possibili in taluni soggetti prigionieri del proprio ruolo, certamente non tutti: qualora pubblici ministeri mi invitassero a un doppio, io semplicemente declinerei l’invito, non sapendo giocare a tennis!
Per una cena ci sarei sempre.
É vero, abbiamo, ormai da anni, discusso di tre casi giudiziari, ma le opinioni non sono tanto distanti.
Per la vicenda bolognese, non solo si impone il diritto all’oblio, ma alcuni recentissimi fatti di cronaca giudiziaria bolognese, secondo la mia sensibilità, impongono un rispettoso silenzio su opinioni del tutto personali: faccio riferimento ad un recentissimo articolo su La Repubblica, edizione locale, a firma di Michele Brambilla, articolo del 17 agosto scorso che legherebbe (condizionale d’obbligo) tre vicende omicidiarie nate in famiglie di noti clinici.
Solo una nota, per così dire, in rito.
Circa la notissima vicenda bolognese di una sessantina di anni fa, Tu stesso rilevi che “il mal fatto in istruzione sommaria rimase”.
Ora, se si ritiene, sempre Tue parole, che “i diritti della difesa nella (tardiva) istruttoria formale fossero troppo trascurati”, il quesito che io Ti pongo è il seguente.
Un processo formalmente ingiusto e monco garantisce la certezza dell’affermazione di responsabilità?
A mio parere, no.
Hai ragione quando inviti a non confondere il giudizio di colpevolezza o innocenza con la tutela del diritto: certo, ma questo è vero quando si fa storia giudiziaria, ripercorrendo a ritroso il passato, la Tua affermazione non è condivisibile nell’attualità di una sentenza che, qualunque essa sia, deve, nel presente, rigorosamente rispettare le regole formali del rito processuale.
Nel caso bolognese i diritti della difesa furono troppo trascurati”, e tanto a me basterebbe.
La Tua frase è tranciante: se nel fare storia possiamo esprimere libere opinioni e suggestioni postume, nell’attualità del fare giustizia il rispetto del rito è l’essenza del diritto stesso al giusto processo.
Il caso Chessman, l’uomo dalla luce rossa, si presta ad analoghe, ancora più tragiche considerazioni.
Fu eseguita una condanna alla pena di morte, dopo dodici anni di detenzione e ben otto sospensioni dell’esecuzione.
Non solo.
Come adolescente all’epoca saresti stato in un’ottima compagnia di innocentisti convinti dell’assoluta necessità di una revisione del processo: tra i tanti, Eleanor Roosevelt, Pablo Casals, Aldous Huxley, Ray Bradbury, Norman Mailer, Robert Frost.
Ma l’orrore di quella vicenda si completa alle 10 esatte del mattino del 2 maggio 1960, ora dell’esecuzione.
Attimo, lo stesso attimo, nel quale, sulla base di una nuova documentazione circa nuove prove, il Giudice si stava accingendo alla nona sospensione dell’esecuzione: ma non fece in tempo, arrivò lungo per qualche secondo…
C’è poco da aggiungere, se non che anni dopo, diversi anni dopo, quella stessa vicenda convinse chi scrive, in una con una precoce ma decisiva lettura di “Delitto e castigo”, a diventare penalista.
Mi sono stupito che Tu abbia dimenticato il mistero di via Monaci, la vicenda processuale, quasi coeva a quella bolognese, relativa al più noto caso italiano di uxoricidio per mano di sicario, caso che coinvolse Fenaroli, il presunto marito mandante dell’assassinio, e Ghiani, il presunto carnefice su mandato. Il caso appassionò l’Italia al punto tale che il dispositivo della condanna all’ergastolo fu radiotrasmesso in notturna, mentre 20.000 persone si assembravano in Piazza Cavour davanti alla Corte di Cassazione in attesa del verdetto. All’epoca non esistevano radiocronisti di giudiziaria, e all’ ultimo momento la RAI affidò la diretta, assoldandolo sul posto, al famoso Niccolò Carosio, media che si occupava di tutt’altro!
Fenaroli morirà in carcere, Ghiani fu graziato da Pertini.
Caro Bruno, possiamo tuttora definirci innocentisti, quanto meno per Ghiani?
D’altronde, entrambi siamo cresciuti come minimi seguaci di Voltaire: “il dubbio è scomodo, ma solo gli imbecilli non ne hanno”.
Sempre pronto a un doppio con Te, anche se non so giocare a tennis…

Guido Magnisi

Informazioni sull'autore

Direttore