Attività del Consiglio Pareri deontologici e ordinamentali

Parere in materia di incompatibilità tra l’esercizio della professione forense e la conduzione di impresa agricola

E’ stato richiesto al Consiglio dell’Ordine di Bologna un parere sulla sussistenza di cause di incompatibilità professionale con la qualifica di imprenditore agricolo professionale.
Preliminarmente deve essere rilevato che il richiedente non risulta attualmente iscritto all’albo degli Avvocati di Bologna, né in nessun altro albo forense italiano. Tuttavia, nell’eventualità che possa trattarsi di soggetto che ha superato con profitto l’esame di abilitazione e che sta valutando l’iscrizione all’albo all’esito della verifica dell’insussistenza di cause di incompatibilità, si reputa utile ed opportuno rendere il parere richiesto.

In merito all’oggetto del parere richiesto, devono essere considerate anzitutto alcune norme del Codice deontologico forense e della Legge professionale.
In particolare, vengono in rilievo l’art. 6 del c.d.f., rubricato “Dovere di evitare incompatibilità”, l’art. 18 della L. 31 dicembre 2012, n. 247, rubricato “Incompatibilità”, l’art. 21 della stessa legge, rubricato “Esercizio professionale effettivo, continuativo, abituale e prevalente e revisione degli albi, degli elenchi e dei registri; obbligo di iscrizione alla previdenza forense”, e infine gli articoli 2083 (“Piccoli imprenditori”) e 2135 c.c. (“Imprenditore agricolo”).
All’art. 6 del c.d.f. è previsto che: “1. L’avvocato deve evitare attività incompatibili con la permanenza dell’iscrizione all’albo.        2. L’avvocato non deve svolgere attività comunque incompatibili con i doveri di indipendenza, dignità e decoro della professione forense”.
All’art. 18 della L. n. 247/2012 è stabilito che: “La professione di avvocato è incompatibile:
a) con qualsiasi altra attività di lavoro autonomo svolta continuativamente o professionalmente, escluse quelle di carattere scientifico, letterario, artistico e culturale, e con l’esercizio dell’attività di notaio. È consentita l’iscrizione nell’albo dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, nell’elenco dei pubblicisti e nel registro dei revisori contabili o nell’albo dei consulenti del lavoro;
b) con l’esercizio di qualsiasi attività di impresa commerciale svolta in nome proprio o in nome o per conto altrui. È fatta salva la possibilità di assumere incarichi di gestione e vigilanza nelle procedure concorsuali o in altre procedure relative a crisi di impresa;
c) con la qualità di socio illimitatamente responsabile o di amministratore di società di persone, aventi quale finalità l’esercizio di attività di impresa commerciale, in qualunque forma costituite, nonché con la qualità di amministratore unico o consigliere delegato di società di capitali, anche in forma cooperativa, nonché con la qualità di presidente di consiglio di amministrazione con poteri individuali di gestione. L’incompatibilità non sussiste se l’oggetto della attività della società è limitato esclusivamente all’amministrazione di beni, personali o familiari, nonché per gli enti e consorzi pubblici e per le società a capitale interamente pubblico;
d) con qualsiasi attività di lavoro subordinato anche se con orario di lavoro limitato
”.
L’art. 21 della medesima legge prevede che: “1. La permanenza dell’iscrizione all’albo è subordinata all’esercizio della professione in modo effettivo, continuativo, abituale e prevalente, salve le eccezioni previste anche in riferimento ai primi anni di esercizio professionale. Le modalità di accertamento dell’esercizio effettivo, continuativo, abituale e prevalente della professione, le eccezioni consentite e le modalità per la reiscrizione sono disciplinate con regolamento adottato ai sensi dell’articolo 1 e con le modalità nello stesso stabilite, con esclusione di ogni riferimento al reddito professionale. (…)”.

La mancanza della effettività, continuatività, abitualità e prevalenza dell’esercizio professionale comporta, se non sussistono giustificati motivi, la cancellazione dall’albo.
Infine, giova altresì ricordare che l’art. 2083 del Codice civile fornisce la seguente definizione di piccoli imprenditori:  “Sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia”.
L’art. 2135 del Codice civile, inoltre, fornisce la nozione di imprenditore agricolo nei seguenti termini: “È imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse.
Per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si intendono le attività dirette alla cura e allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine.
Si intendono comunque connesse le attività, esercitate dal medesimo imprenditore agricolo, dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall’allevamento di animali, nonché le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata, ivi comprese le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione ed ospitalità come definite dalla legge
”.

Alla luce del quesito posto , pare inoltre utile evidenziare la definizione normativa della qualifica di imprenditore agricolo professionale (c.d. I.A.P.). Ai sensi dell’art. 1, c. 1°, del D. Lgs. 29 marzo 2004 n. 99, “è imprenditore agricolo professionale (IAP) colui il quale, in possesso di conoscenze e competenze professionali ai sensi dell’articolo 5 del regolamento (CE) n. 1257/1999 del Consiglio dell’Unione Europea, dedichi alle attività agricole di cui all’articolo 2135 del Codice civile, direttamente o in qualità di socio di società, almeno il cinquanta per cento del proprio tempo di lavoro complessivo e che ricavi dalle attività medesime almeno il cinquanta per cento del proprio reddito globale da lavoro”.

Nello specifico, sussiste il requisito delle conoscenze e competenze professionali adeguate ai sensi del’art. 5 del Reg. (CE) n. 1257/1999 quando il soggetto possegga uno tra i seguenti titoli: a) diploma di laurea o universitario in Scienze agrarie o forestali o produzioni animali o tecnologie alimentari o medicina veterinaria od equipollenti; b) diploma di istituto tecnico agrario od altro ad indirizzo agrario; c) attestato di frequenza con profitto a corsi di formazione professionale agricola di almeno 150 ore organizzati o riconosciuti ente accreditato; d) esercizio continuativo per almeno un triennio di attività agricola diretta alla coltivazione del fondo, alla silvicoltura, acquacoltura, allevamento bestiame ed attività connesse e collaterali; e) sia in proprio come coltivatore diretto o imprenditore agricolo a titolo principale o anche come coadiuvante familiare o dipendente di impresa agricola. Tali periodi devono essere obiettivamente riscontrabili da specifica posizione previdenziale agricola presso l’INPS o, in deroga per chi opera prevalentemente in zone montane, almeno da partita IVA agricola aperta per corrispondenti periodi;   f) brevetto di agricoltore professionale conseguito ai sensi della normativa regionale. Pertanto, rileva sul punto, ai sensi dell’art. 1, c. 2°, del d.lgs. n. 99/2004, l’accertamento eseguito dalla Regione dove ha sede l’impresa agricola giacché ha efficacia in tutto il territorio nazionale.

La titolarità della qualifica di IAP implica, inoltre, che eventuali redditi da lavoro extra-agricolo (come, per esempio, i compensi per esercizio della libera professione) non superino il 50% del reddito globale conseguito, comprensivo di eventuali redditi derivanti da attività agricole complementari, da aiuti agroambientali, e agroforestali e da altre forme di integrazione al reddito previste dalla legislazione di settore.

Le pensioni di ogni genere, gli assegni ad esse equiparati, le indennità e le somme percepite per l’espletamento di cariche pubbliche, ovvero in associazioni e altri enti operanti nel settore agricolo, sono escluse dal computo del reddito globale da lavoro.

Nel caso delle società di persone e cooperative, ivi incluse le cooperative di lavoro, l’attività svolta dai soci della società, in presenza dei requisiti di conoscenze e competenze professionali, tempo lavoro e reddito su menzionati, è idonea a fare acquisire ai medesimi la qualifica di imprenditore agricolo professionale e al riconoscimento dei requisiti per i soci lavoratori.

Nel caso di società di capitali, l’attività svolta dagli amministratori nella società, in presenza dei predetti requisiti di conoscenze e competenze professionali, tempo lavoro e reddito, è idonea a far acquisire ai medesimi amministratori la qualifica di imprenditore agricolo professionale.

Per l’imprenditore che operi nelle zone svantaggiate di cui all’articolo 17 del citato regolamento (CE) n. 1257/1999, i requisiti di cui al presente comma sono ridotti al venticinque per cento.

Inoltre, con il decreto legislativo n. 101/2005 è stato previsto all’art. 1 che lo IAP persona fisica o socio, “deve iscriversi nella gestione previdenziale agricola”. Di fatto, quindi, la qualifica di IAP richiede la dimostrazione di una posizione previdenziale agricola all’I.N.P.S. (ex SCAU come coltivatore diretto o iap o ex iatp). Si riconosce equivalente, a tali fini, anche l’iscrizione a ente previdenziale ENPAIA – Ente nazionale di Previdenza per gli Addetti ed Impiegati in Agricoltura.

Peraltro, in merito all’esercizio di imprese agricole da parte di avvocati è noto il consolidato orientamento del Consiglio Nazionale Forense reso in diversi pareri (cfr. n. 30 e n. 31 del 9 maggio 2007, n. 44 del 28 ottobre 2009, n. 44 del 25 novembre 2009, n. 1 del 14 gennaio 2011), in parte richiamati dal parere n. 92 del 25 settembre 2013 e, più di recente, dai pareri n. 19 del 13 febbraio 2019 e n. 27 del 12 luglio 2023.

Tale orientamento, costantemente seguito da gran parte degli Ordini forensi italiani (cfr., per tutti i pareri resi dall’Ordine degli Avvocati di Firenze in data 28/02/2020 e 29/04/2020 e quello reso dall’Ordine degli Avvocati di Brescia in data 17 marzo 2017), può essere richiamato riportando il contenuto del parere CNF n. 92/2013:
Ritiene questa Commissione che anche dopo l’entrata in vigore della Legge n. 247/2012 debba essere confermato il proprio costante orientamento, espresso nella vigenza del precedente ordinamento professionale forense e illustrato da ultimo nei pareri 14 gennaio 2011, n.1 e 25 novembre 2009, n. 44 e 9 maggio 2007, n. 31, nei quali si sono indicati i criteri utili a valutare in concreto la compatibilità tra lo svolgimento di attività imprenditoriale agricola e la contemporanea permanenza nell’albo degli avvocati. Si deve premettere che l’incertezza interpretativa ha ragione d’essere solo con riferimento al piccolo imprenditore agricolo: è evidente che, qualora si tratti di un titolare di una consistente impresa organizzata, o ancora con attività estesa all’industria e al commercio nel settore agroalimentare, questi deve essere considerato un “esercente il commercio” nel senso più pieno di cui all’art.18 della Legge Professionale Forense e l’iscrizione nell’Albo incompatibile con l’attività svolta. Di contro, non rientra tra quelle incompatibili la figura del piccolo imprenditore agricolo: tale è per il codice civile (art. 2083) e la giurisprudenza colui che, per mezzo del lavoro proprio o di quello dei propri congiunti, coltiva il fondo di sua proprietà, eventualmente cedendo i frutti a terzi. Manca, dunque, al piccolo imprenditore agricolo quel quid pluris, rappresentato, ad esempio, da una organizzazione aziendale molto articolata, o dallo smercio di prodotti chiaramente eccedenti quelli prodotti dal fondo, o, anche, da una rilevante trasformazione del prodotto naturale, da cui si possa arguire che il carattere predominante dell’attività intrapresa è l’esercizio del commercio, anziché il mero sfruttamento (più o meno redditizio) delle risorse terriere.
Si consideri che i caratteri sopra indicati sono, del resto, quelli che garantiscono al piccolo imprenditore la non assoggettabilità alle norme in materia di fallimento, secondo la previsione dell’art. 1 del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, come modificato con d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169 (il profilo della soggezione, o meno, al fallimento rimanendo peraltro un corollario e non un criterio distintivo univoco). La condizione di piccolo imprenditore agricolo non è quindi d’ostacolo al contemporaneo esercizio della professione forense, purché l’interessato si mantenga nei limiti imposti dalla legge e dalla giurisprudenza: vale a dire, finché l’attività di commercio non superi in modo significativo quella di coltivazione, di tal ché sia messa a repentaglio l’indipendenza dell’avvocato (che è bene effettivamente oggetto di tutela da parte dell’ordinamento forense), per il suo entrare nelle dinamiche della concorrenza tra imprenditori commerciali. Resta, naturalmente, nei compiti e nei poteri del Consiglio dell’Ordine competente, svolta l’istruttoria del caso, giungere ad una determinazione sulla compatibilità dell’iscrizione nel singolo caso
”.

Nel caso di specie, il richiedente non aveva in prima istanza offerto indicazioni in merito alla dimensione dell’impresa agricola, né sulla natura famigliare dei beni amministrati. Tuttavia, a seguito di convocazione a chiarimenti dell’interessato, veniva specificato che trattasi di due fondi agricoli, uno di collina e uno di pianura, siti entrambi nella Regione Emilia-Romagna e adibiti prevalentemente alla coltivazione di cereali. Inoltre, il richiedente precisava che entrambi i fondi sono beni di famiglia attualmente in comproprietà con la madre a seguito di successione al padre.

La produzione complessivamente riveniente dai fondi agricoli viene integralmente conferita a enti consortili o cooperativi, non essendo prevista alcuna vendita al dettaglio o trasformazione del prodotto. Da quanto dichiarato dal richiedente, solo nell’anno 2023 l’attività agricola ha costituito la principale fonte di reddito e l’impiego prevalente, mentre così non è stato negli anni precedenti.

Si reputa che nell’alveo dell’orientamento CNF, possa darsi il caso di piccolo imprenditore che dedichi non meno del 50% del suo tempo lavorativo globale all’impresa agricola e consegua almeno il 50% dei propri redditi dall’esercizio della stessa. Se tale condizione possa concretamente consentire il conseguimento della qualifica di IAP, sembra però porsi in insanabile contrasto con la previsione dell’art. 21 della L. n. 247/2012 per la permanenza dell’iscrizione all’albo, giacché i requisiti di tempo e di reddito imposti dalla legge inducono ad escludere l’esercizio della professione in modo effettivo, continuativo, abituale e prevalente.

Peraltro, tale conclusione non si pone in contrasto con l’orientamento CNF poiché ne costituisce specificazione correlata al caso concreto, anche qualora si tratti di beni di proprietà famigliare.

In conclusione, l’art. 6 del c.d.f., genericamente, afferma l’obbligo degli iscritti all’albo di evitare attività incompatibili con l’iscrizione medesima, aggiungendo al co. 2 che le attività non possono compromettere il dovere di indipendenza, quello della dignità e del decoro della professione.
L’art. 18 della L. n. 247/2012 indica in maniera più stringente le attività incompatibili con la professione forense, in particolare stabilendo alla lettera c) che l’avvocato è incompatibile con la qualità di socio illimitatamente responsabile o di amministratore di società di persone, aventi quale finalità l’esercizio di attività di impresa commerciale, in qualunque forma costituite, nonché con la qualità di amministratore unico o consigliere delegato di società di capitali, anche in forma cooperativa, nonché con la qualità di presidente di consiglio di amministrazione con poteri individuali di gestione. L’incompatibilità non sussiste, però, se l’oggetto della attività della società è limitato esclusivamente all’amministrazione di beni, personali o familiari, nonché per gli enti e consorzi pubblici e per le società a capitale interamente pubblico.
Da quanto sopra, si evince quindi che all’avvocato è consentito assumere la qualità di socio illimitatamente responsabile o la carica di amministratore unico di società che si limitino all’amministrazione di beni personali o familiari.
Queste norme, insieme all’art. 21 della L. n. 247/2012, vanno considerate unitamente agli artt. 2083 e 2135 del Codice civile, nonché all’art. 1 del D. Lgs. n. 99/2004.
L’art. 2135 c.c. distingue nettamente l’impresa agricola da quella commerciale, indica quali siano da intendere le attività agricole e definisce la figura dell’imprenditore agricolo. Infine, sottolinea che, ai fini della qualifica, resta del tutto indifferente la destinazione finale della produzione qualora ci sia una netta prevalenza della cura e della coltivazione del fondo rispetto all’eventuale vendita della stessa.

Inoltre, l’incompatibilità non sussiste per il piccolo imprenditore agricolo di cui all’art. 2083 c.c., ovvero per colui che, per mezzo del lavoro proprio o di quello dei propri congiunti, coltiva il fondo di sua proprietà, eventualmente cedendo i frutti a terzi, purché l’interessato si mantenga nei limiti imposti dalla legge e dalla giurisprudenza a questa figura, ossia finché l’attività di commercio non superi in modo significativo quella di coltivazione, sì da mettere a repentaglio l’indipendenza dell’avvocato inserendolo nelle dinamiche della concorrenza tra imprenditori.

Pertanto, l’essere imprenditore agricolo di per sé non risulta, in astratto, incompatibile con l’esercizio della professione forense che deve comunque rimanere effettivo, continuato, abituale e prevalente rispetto ad ogni altra attività svolta, come previsto dall’art. 21 della L. n. 247/2012.

Tuttavia, ai fini del conseguimento della qualifica di “imprenditore agricolo professionale”, la sussistenza dei requisiti stabiliti dall’art. 1, c. 1°, del D. Lgs. n. 99/2004 porta ad escludere che l’esercizio contemporaneo della professione forense possa essere effettivo, continuativo, abituale e prevalente come richiesto per la permanenza di iscrizione all’albo.
Tutto ciò premesso, si ritiene  di precisare che, fatti salvi i compiti e i poteri del Consiglio dell’Ordine, tramite apposita Commissione, di verifica della compatibilità dell’iscrizione caso per caso, con la vigente disciplina dell’ordinamento della professione forense “il potere disciplinare appartiene ai consigli distrettuali di disciplina forense” e dunque non rientra tra i compiti e le prerogative del Consiglio dell’Ordine.
Ne consegue che i pareri in materia deontologica che gli iscritti richiedono al Consiglio dell’Ordine vengono da questo rilasciati in termini generali e non assumono né possono assumere, in eventuali procedimenti disciplinari, alcuna funzione orientativa né tantomeno vincolante del giudizio del Consiglio Distrettuale di Disciplina né rilevare quali esimente dell’iscritto sotto il profilo soggettivo.
Pertanto è possibile che il Consiglio Distrettuale di Disciplina, nella sua autonoma valutazione di comportamenti concretamente tenuti, possa pervenire a conclusioni diverse da quelle fatte proprie dal Consiglio.

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