Tra il serio e il faceto

Memorie di un ottuagenario Toga d’Oro

Mancavano otto giorni a Natale. Era uno splendido sabato mattina con uno splendido sole. Bologna era una città preparata per le imminenti festività. L’aria che si respirava era già un’aria di festa e, i vari mercatini sparsi qua e là, rendevano la mattinata bolognese ancora più festosa.

A piedi, attraversando la città, mi recavo al vecchio Palazzo di Giustizia. Il percorso era il solito da più di cinquant’anni: Via d’Azeglio, un caffè da Zanarini, la Banca d’Italia, le Tombe dei glossatori e là, sullo sfondo, la maestosità del napoleonico palazzo Baciocchi (così denominato dal nome di famiglia del vecchio proprietario, che ora giace in San Petronio accanto a sua moglie Elisa, sorella di Napoleone e il cui cuore è seppellito, novella Biancaneve, a lato dei due monumenti funebri).

La quotidianità, però, era diversa poiché quella mattina non mi recavo a Palazzo per discutere un processo ma dovevo partecipare ad una cerimonia che si teneva in una fastosa aula della Corte d’Appello. La stessa aula dove, da studente, mi recavo per assistere ai grandi processi e ad ascoltare i grandi avvocati: De Marsico, Perroux, il professor Delitala e poi i giovani Landi, Vecchi e i famosissimi Cristofori, Fusaro, D’Errico.

Durante la cerimonia sarei stato insignito, insieme ad altri, amici e colleghi dell’onorificenza più prestigiosa che l’Ordine degli Avvocati consegna a chi, per cinquant’anni, ha meritevolmente esercitato la nostra professione. Ero solo, dopo sarebbero arrivati la famiglia e gli amici, ma per la strada ero solo e lì, all’altezza di San Domenico, i ricordi hanno sollevato un tumulto nel mio animo. Devo subito dire che, per me, aver ricevuto la toga d’oro è stato un momento importante. Sì lo so: ci sono tanti che disdegnano tale onorificenza dicendo: “è roba vecchia, le tradizioni non contano e, poi, basta far passare cinquant’anni anni e tutti ci arrivano”. Val la pena replicare? Affidiamoci a Dante, non ti curar di loro, che mai furon vivi e guarda e passa. E, in quel momento dei dì che furono, mi assalse il sovvenir.

Ricordai, era una calda mattinata di aprile, il mio primo processo. Giunsi al piano terreno nell’aula a destra, entrando nella vecchia Pretura. “Noleggiai” una toga dall’usciere, pagando di tasca mia la mancia. Così capii subito che, per fare l’avvocato, prima bisogna pagare poi, forse, dopo, qualcuno pagherà. Conoscevo l’aula perché da studente tante volte avevo assistito a diversi processi confuso tra il pubblico.

Ho fatto l’università durante gli anni della contestazione e, mentre i miei amici o “compagni”, come si diceva allora, lottavano per un mondo migliore, per la pace in Vietnam, io andavo ad assistere a processi per imparare come si “fa” un processo. Sinceramente, mi piaceva molto di più apprendere, assistendo alla vita quotidiana del Foro, che non studiare noiosissime pagine del Santoro-Passarelli. Conoscevo, quindi, come si svolge un’udienza e, in toga, vestito di tutto punto, mi misi finalmente non più fra il pubblico, ma, seduto, ai banchi della difesa, aspettando che il Pretore esordisse con la famosa frase di rito “c’è qualcuno per le difese d’ufficio?”. Prontamente risposi che io ero disponibile. Mi ero laureato a fine febbraio. Il mese di marzo lo trascorsi all’Ordine per le pratiche necessarie per “ottenere il praticantato con patrocinio”, pagando ancora una volta.

Mi fu affidata la difesa di un contumace in opposizione ad un decreto penale di condanna. Avevo assistito tante volte a processi di quel tipo e, nell’assoluto silenzio della difesa, il pretore ex 510 c.p.p. (vecchio codice) ordinava l’esecuzione del decreto. Senza fare il processo. Mi era sempre sembrata una procedura illegittima: il contumace condannato, senza la possibilità di difendersi, né prima dell’emissione del decreto, né dopo. Condannato senza processo. Mi ero, quindi, preparato un’eccezione di costituzionalità per ovvie violazioni dell’art. 24 Cost.  Fu così che, nello stupore generale, quando il pretore chiese se fosse presente l’opponente, ottenuta una risposta negativa, si accinse a redigere il dispositivo di condanna. Mentre già scriveva, chiese se la difesa avesse qualcosa da dire. Mi alzai e, invece di “rimettermi a giustizia”, stanco ritornello allora in voga, dissi che volevo sollevare un’eccezione di incostituzionalità sia perché l’emissione del decreto inaudita altera parte violava l’art. 24 Cost., sia, soprattutto, perché la contumacia non è una colpa ma un diritto: un imputato può difendersi anche non comparendo ma lo Stato deve permettergli il diritto di difesa, il diritto ad un giusto processo, oggi diremmo. Impedire la difesa non è costituzionale. Un vecchio avvocato seduto vicino mi chiese: “ma tu chi sei?”. Avevo evidentemente infranto la ritualità delle difese d’ufficio che pigramente occupavano buona parte dell’udienza, procedendo senza scossoni. Il pretore, forse, rimpianse di avermi nominato ma, senza battere ciglio, interruppe la scrittura del dispositivo e si ritirò per decidere.

Rientrò dopo cinque minuti respingendo, ovviamente, per manifesta infondatezza la mia eccezione e confermò il decreto ordinandone l’esecuzione. Chissà se oggi qualcosa è cambiato. Questo fu il mio debutto.

Cominciò, poi, una bellissima epoca in cui passavo le mattinate a difendere imputati di piccoli furti: una vecchia signora che aveva trafugato un pezzo di carne all’Omnia, un supermercato in Piazza Dei Martiri. Seguii poi questo processo fino a chiedere ed ottenere la grazia impedendo una carcerazione effettiva, visti i precedenti penali dell’imputata. Fui anche ricevuto da un funzionario al Quirinale per perorare il provvedimento di clemenza.

Poi, un giorno, difesi un carcerato e feci il mio ingresso in carcere, allora a San Giovanni in Monte. Era l’ora dei pasti, quasi mezzogiorno, dopo aver terminato i processi del mattino. La prima cosa che ancora ricordo fu il profumo di un ottimo ragù. Allora, a Bologna, si mangiava bene ovunque, anche a San Giovanni in Monte. Con il carcerato ebbi anche la prima esperienza di richiesta di libertà provvisoria. Il Tribunale della libertà non esisteva ancora e la libertà provvisoria era un’istanza che si presentava direttamente al pretore durante un colloquio facilissimo da ottenere: era sufficiente bussare alla porta del Giudice, mettere dentro la testa, e, il più delle volte, il magistrato, cordialissimo, ti invitava ad entrare e a sederti. Tu gli consegnavi l’istanza redatta da te poiché non avevo una segretaria e il pretore, accertato che all’istanza fosse attaccato il famoso Cicerone, marca da bollo, che avevi comperato dal tabaccaio e, ovviamente, pagato, solitamente ti rispondeva “Avvocato devo solo fare un paio di accertamenti e fra qualche giorno glielo metto fuori”. Alle volte poteva anche terminare con “stasera ci manca un quarto per il doppio. Lei è disponibile?”. Sì, eravamo tutti professionisti seri e molto amici ma, soprattutto, a differenza di oggi, rispettosi dei differenti ruoli.

Quale rimpianto. Penso ad oggi, i magistrati e avvocati quasi tifosi di opposte fazioni. Che tristezza. Poi un grande studio legale civile milanese mi fece un’importante proposta, anche economica, soprattutto per quei tempi in cui gli studi solitamente non pagavano.  Fu così che mi trasferii a Milano, stanco di pagare per avere la toga e per comperare i Ciceroni.  Allora, non esisteva il gratuito patrocinio e le pratiche “pro bono” erano un onore e un onere di noi avvocati.

La mia carriera di penalista, che ricordo con grande nostalgia, finì lì. A quell’epoca entrò in vigore la riforma del processo del lavoro. Mi chiesero di occuparmi di quel contenzioso per i clienti importanti dello studio. Spiegai il mio stupore precisando che ignoravo la materia e mi venne risposto che anche loro non conoscevano la nuova riforma.  Lo Statuto era entrato in vigore l’anno prima e, quindi, toccava a me, come matricola, studiare. Per contrappasso fui costretto a mettere nuovamente mano  al noiosissimo Santoro-Passarelli. La mia pratica da penalista, però, mi aiutò. Il processo del lavoro era diventato celere e, soprattutto, orale. I vecchi avvocati civilisti non erano preparati all’immediatezza del dibattimento. E fu così che eccepivo e discutevo a fronte del silenzio dell’altro avvocato il quale, seppur bravissimo, era abituato a chiedere rinvio anche se controparte avesse depositato un francobollo. Ovviamente, difendere alla Pretura di Milano, sezione lavoro, le grandi aziende nei primi anni 70’ era un’impresa disperata. Poiché, le difficoltà non mi hanno mai spaventato ma, semmai, eccitato mi affezionai alla materia con grande piacere dei nuovi colleghi di studio i quali erano liberi di occuparsi di bilanci, fusioni, risarcimenti milionari. Inoltre, il processo era orale e io mi trovavo a mio agio.

Poco alla volta smisi di rimpiangere i miei vecchi clienti, piccoli truffatori, ladri bisognosi ed emittenti di assegno a vuoto: i mitici “cabriolet”, in gergo, scoperti. Sono diventato, quindi, un civilista e la mia carriera si è svolta in tale ambito, salvo qualche sconfinamento nel penale, per difendere di fronte alle Corti Europee del Lussemburgo e di Strasburgo. Infatti, lo studio milanese mi insegnò anche l’esistenza di tali Corti inviandomi spesso presso la Corte di Giustizia e, qualche volta, alla Corte dei diritti dell’uomo. Di fronte a tali Corti, successivamente, ho discusso moltissime mie cause. Allora le Corti Europee non erano note come oggi e, quando tornavo a Bologna e dicevo ai miei vecchi amici, soliti giocare a carte da Ciccio, che ero andato in Lussemburgo cominciavano una serie di lazzi e frizzi che vi lascio immaginare. Anche i giudici non erano preparati. Una volta durante una discussione orale citai una sentenza della Corte alsaziana. Il giudice mi interruppe e mi invitò a proseguire poiché il tribunale era disinteressato alla giurisprudenza di corti “esotiche”.

Giunto al termine di questo mio breve racconto vorrei finire con qualche osservazione generale. Quando, da studente, seguivo i vari processi, ce ne furono soprattutto due che avevano attirato la mia attenzione. Uno svoltosi a Bologna: l’imputato era accusato di avere ucciso la moglie. Oggi si direbbe “femminicidio”. Non cito il nome per rispetto del diritto all’oblio, essendo ancora vivi i suoi discendenti, esponenti di una nota famiglia cittadina. L’altro era il famoso processo “Chessman”, che si svolse in California. Il condannato fu messo a morte il 2 maggio 1960 nella prigione di San Quintino a Nord di San Francisco.

Ovviamente, ero innocentista ed ero molto indignato per entrambe le condanne. L’uxoricida fu condannato all’ergastolo. Poi, in appello, la pena venne ridotta a 24 anni. Per Chessman si è detto. Perché ero innocentista?

Ho riflettuto molto e la mia giovane età era più attratta dai problemi di diritto che dall’esame dei fatti.  Per il Chessman ero contrario alla pena di morte. Per di più, il Chessman, per evitare la condanna, aveva sollevato tanti dubbi che alla fine mi inducevano a ritenere che fosse innocente o, quantomeno, in dubio pro reo; soprattutto, se si parla di camera a gas.

Il giorno dell’esecuzione avevo 14 anni ed ero particolarmente indignato, così come il mondo intero che commetteva il mio stesso errore: confondere l’innocenza con la contrarietà alla pena di morte.

Nel caso bolognese, invece, la situazione era diversa ma, per certi versi, simile.

Anzitutto, assistetti a moltissime udienze che si svolgevano nell’aula in cui, poi, mi sarebbe stata conferita la toga d’oro. Erano i primi anni 60’ e, allora, i diritti della difesa erano particolarmente compressi. Pensate, nell’istruttoria formale contrapposta a quella sommaria, l’avvocato non aveva neppure il diritto ad assistere all’interrogatorio dell’imputato. Fu la Corte costituzionale che la impose.  Una perizia chimica fu fatta senza informare la difesa che non potè nominare un proprio perito, né assistervi. E quale fu la difesa della Procura? Il fatto che si stesse effettuando una perizia era un fatto notorio, avendone ricevuto ampio spazio sui giornali. La difesa era, quindi, informata e, se avesse voluto avrebbe potuto depositare in cancelleria la nomina di un perito. Inoltre, l’istruttoria rimaneva sommaria poiché il Procuratore della Repubblica riteneva che l’imputato avrebbe confessato, ma così non fu e, quindi, l’istruttoria diventò formale molto tempo dopo i limiti imposti dalla legge per quel tipo di processo. I diritti della difesa nell’istruttoria formale sarebbero stati molto più tutelati. Purtroppo, il mal fatto in sommaria rimaneva. Io ero indignato in punto di diritto e, quindi, così ragionavo: l’imputato doveva essere scarcerato e assolto poichè non sottoposto a giusto processo. Sempre per usare un’odierna terminologia. Fin qui, i fatti di allora o, per meglio dire, il mio stato d’animo, condiviso, però, da buona parte dell’opinione pubblica.

Qualche anno fa ripresi ad occuparmi di questi due processi che tanto mi avevano coinvolto nella mia adolescenza. Trovai, grazie a Google, addirittura i verbali del processo Chessman e, per il caso bolognese, una nota casa editrice locale pubblicò gli atti. Qui accadde che la mia nel tempo acquisita esperienza di avvocato mi spinse ad esaminare i fatti che, prima di allora, mai avevano attirato la mia curiosità. L’impressione fu enorme. Dai fatti emergeva con assoluta certezza la responsabilità di entrambi gli imputati, i quali ai miei occhi si trasformavano lentamente in colpevoli, non più vittime di soprusi giudiziari di un processo ingiusto.

Sono ancora contrario alla pena di morte e penso ancora che i diritti della difesa fossero troppo trascurati nel caso bolognese. Ma non bisogna confondere il giudizio di colpevolezza o innocenza con la tutela del diritto. Non a caso, il diritto romano insegna ex facto oritur ius. Il mio modo di ragionare oggi è talmente cambiato che, per quanto riguarda il processo bolognese, sono convinto che la sentenza giusta fosse quella di primo grado, vale a dire condanna all’ergastolo, e non quella di appello che ridusse la pena a 24 anni, scontati poi effettivamente a 16 per riconoscimento di attenuanti generiche. Nel caso Chessman, sono ancora convinto che l’imputato non avrebbe dovuto condannato a morte ma che una lunga detenzione sarebbe stata una pena giusta, tenuto conto che era accusato di violenza sessuale e non di omicidio.

Su questi temi sono solito conversare e ho avuto anche il piacere di tenere un incontro in Fondazione forense, con il mio amico Guido, notissimo penalista bolognese, di fama nazionale, il quale credo che sia rimasto innocentista. Ora mi assale un dubbio, però, “Dio mio. Non sarò, invecchiando, diventato un Pubblico Ministero? Chissà se Guido avesse voglia di rassicurarmi”.

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Bruno Micolano