Varie

Il lungo viaggio dell’avvocato monocommittente

Tra i principi che hanno da sempre caratterizzato la professione forense, uno dei più fondanti è senz’altro quello che prevede l’incompatibilità dell’esercizio della professione con il lavoro dipendente retribuito, fatte salve alcune eccezioni. Un limite che altre professioni liberali – architetto, ingegnere, medico, commercialista, consulente del lavoro – non hanno previsto.

Nel previgente Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore, il Rdl 1578/33, l’art. 3 al comma 3 disponeva l’incompatibilità “con ogni altro impiego retribuito, anche se consistente nella prestazione di opera di assistenza o consulenza legale, che non abbia carattere scientifico o letterario”. Le eccezioni, quanto agli incarichi retribuiti, riguardavano i professori e gli assistenti delle Università e i professori degli Istituti secondari, oltre agli avvocati e procuratori degli uffici legali degli Enti indicati nel comma 2 dell’art. 3, iscritti nell’elenco speciale annesso all’Albo.

Anche la Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense, la l. n. 247 del 31.12.2012, si è occupata delle incompatibilità, non senza definire prima in via generale in cosa consista l’esercizio della professione di avvocato: “L’avvocato è un libero professionista che, in libertà, autonomia e indipendenza, svolge le attività di cui ai commi 5 e 6”, afferma solennemente l’art. 2 al comma 1°.

Nell’art. 18 la nuova legge professionale disciplina le incompatibilità e alla lett. d) prevede che la professione di avvocato sia incompatibile “con qualsiasi attività di lavoro subordinato anche se con orario di lavoro limitato”. Nell’art. 19 sono disciplinate le eccezioni alle norme sulla incompatibilità, che ricalcano quelle della legge del 1933 (professori e ricercatori universitari, insegnanti di scuola secondaria, docenti e ricercatori universitari a tempo pieno e avvocati degli enti pubblici iscritti negli elenchi speciali).

Come accade in tutti i campi, la realtà ha da tempo superato la previsione normativa, figlia di una concezione della libera professione che si basava su scenari economici, sociali e tecnologici da tempo superati o profondamente modificati.

La realtà degli avvocati che lavorano esclusivamente o quasi totalmente a per conto di altri avvocati, senza avere uno studio proprio e clienti propri, è un fenomeno ormai radicato, con buona pace della triade di principi che fondava l’essenza della libera professione forense: libertà, autonomia e indipendenza restano sì le caratteristiche di chi sceglie di aprire uno studio legale in proprio, magari condividendo gli spazi con altri professionisti, per dividerne i costi, ma non è più l’unica modalità di svolgimento della professione legale.

Da tempo infatti si assiste al fenomeno per cui chi svolge la pratica forense presso un dominus o uno studio associato, una volta superato l’esame di abilitazione, rimane all’interno dello studio, diventandone collaboratore, spesso lavorando esclusivamente sulle pratiche del dominus o dello studio associato, seguendo precise direttive, più raramente mantenendo anche la possibilità di lavorare su pratiche e clientela propria.

In altri casi, giovani avvocati e anche non più giovani, una volta provata la strada del lavoro in proprio, non avendo trovato un flusso di clientela sufficiente a giustificare i costi connessi alla professione e ad ottenere un reddito dignitoso, offrono la propria collaborazione a studi legale più strutturati o rispondono alle loro richieste di reclutamento, preferendo una retribuzione fissa mensile, a fronte della messa a disposizione del proprio tempo e della propria esperienza professionale a favore del committente avvocato o studio associato, alle cui direttive dovranno sottostare.

Va da sé che una simile situazione appare uguale o molto simile a un rapporto di lavoro subordinato o parasubordinato, ma in totale assenza di una regolamentazione contrattuale, e quindi senza diritti e obblighi ben definiti tra le parti: la determinazione dei compensi, degli orari, il godimento delle ferie, l’assenza per malattia, infortunio o maternità sono lasciati alla mera disponibilità di chi offre il lavoro, e nei casi migliori alla libera contrattazione delle parti. Appare evidente quale sia la parte più debole di questo tipo di rapporto: l’avvocato collaboratore, che fattura solo per il dominus o lo studio, in quella che è stato definito regime di monocommittenza. Un simile rapporto, nel quale non vi è alcuna garanzia di durata e compensi, potrebbe interrompersi in qualunque momento e per qualsiasi ragione, e per l’avvocato-collaboratore sarà difficilissimo ricollocarsi o cominciare nuovamente la professione in proprio.

Una situazione di assoluta precarietà, alla quale sono esposti soprattutto i giovani avvocati, con molta incidenza sulla componente femminile della professione; si tratta di una scelta spesso necessitata, dovuta a situazioni sociali o familiari contingenti, nascita di figli, mutui da pagare, che spingono verso la certezza di un introito fisso, che garantisce il controllo dell’economia personale o familiare, rispetto all’alea degli introiti da libera professione in proprio, anche a causa delle spese necessarie a mantenere uno studio.

Si aggiungano altri fattori, quali il gran numero di avvocati, con conseguente aumento della concorrenza e la tentazione di offrire le proprie prestazioni al ribasso, come anche il fenomeno delle grandi aziende che approfittano di tale concorrenza per proporre accordi di assistenza “capestro”, non ancora debellati dalla battaglia sull’equo compenso in atto da anni, e poi ancora le diverse modalità di reperimento della clientela, con lo sdoganamento della pubblicità dei servizi professionali.

La professione insomma non è più così redditizia, e le statistiche della Cassa Forense certificano da anni che, a fronte di un numero piuttosto ristretto di professionisti con redditi professionali molto alti, la stragrande maggioranza degli avvocati gode di redditi medio-bassi, molto simili a normali stipendi.

Secondo i rapporti Censis commissionati da Cassa Forense, la percentuale degli avvocati che lavorano per altri avvocati si attesterebbe su di una percentuale del 15% del totale degli iscritti, che quindi porterebbe alla ragguardevole cifra di 30 mila professionisti in regime di monocommittenza.

Di questo argomento non poteva non occuparsi l’A.I.G.A., associazione votata alla tutela degli interessi dei colleghi più giovani e quindi più esposti al rischio di passare dal praticantato presso uno studio legale già strutturato alla collaborazione permanente con lo stesso studio.

Proprio grazie all’impegno dell’A.I.G.A., al Congresso nazionale forense svoltosi a Catania nell’anno 2018, fu approvata a larga una mozione che proponeva la previsione di un modello di contratto di collaborazione in monocommittenza. +

In ambito normativo, ad oggi sono si contano un disegno di legge e una proposta di legge presentati alla Camera sull’argomento, riuniti e discussi in Commissione Giustizia.

Il d.d.l. 428/18 “Gribaudo” prevede l’introduzione di un comma 3 bis all’art. 19 della l. professionale 247/12, nel quale si disciplina un’ulteriore eccezione all’incompatibilità, per gli avvocati che svolgono attività di lavoro dipendente o parasubordinato in via esclusiva presso lo studio di un avvocato, di un’associazione professionale o di una società tra avvocati o multidisciplinare, purché la natura del lavoro svolto riguardi esclusivamente quella propria della professione forense. Si prevedono inoltre un contratto collettivo nazionale di lavoro, la determinazione di apposite modalità e importi per la contribuzione previdenziale, anche a carico del datore di lavoro, la definizione di parametri per cui considerare un a monocommittenza come lavoro subordinato, parasubordinato o autonomo.

Più recentemente è stata depositata la proposta di legge n. 2722, firmataria l’On. Valentina D’Orso, strutturata in 13 articoli, finalizzati a disciplinare tutti gli aspetti connessi: ambito di applicazione, forma e contenuto del contratto, compenso e rimborso spese, obblighi dell’avvocato in regime di monocommittenza e dell’avvocato committente, obbligo di riservatezza e patto di non concorrenza, recesso e preavviso, gravidanza, adozione, malattia e infortunio, oneri fiscali, previdenziali e assicurativi.

A riprova che i tempi siano veramente maturi per accogliere in seno alla professione questa nuova categoria di avvocati, recentemente anche l’A.N.F. ha preso posizione sull’argomento, e nel comunicato stampa dell’11 aprile, nel quale si dà atto dell’invio del deliberato del Consiglio Nazionale alla Commissione Giustizia della Camera, impegnata nell’esame delle proposte di legge C 428 e C 2722, ha auspicato che possa essere “un valido strumento di supporto per all’elaborazione di una normativa non più procrastinabile”.

Le conclusioni del “Deliberato in tema di avvocato collaboratore e in regime di committenza” approvato al Consiglio Nazionale dell’A.N.F. del 26-27 marzo 2022 ha conferito mandato al Segretario Generale e al Direttivo nazionale di dare attuazione a quanto deliberato e a porre in essere ogni iniziativa necessaria per l’adozione di interventi normativi che prevedano l’inserimento nell’ordinamento della professione forense di due nuove figure: l’avvocato collaboratore in forma dipendente e l’avvocato collaboratore continuativo.

Una cosa è certa, lo stravolgimento di uno dei principi cardine della professione forense è in atto da tempo e la sua regolarizzazione in ambito normativo è veramente improcrastinabile. La professione legale è cambiata, il prestigio sociale e il benessere economico che la caratterizzavano sono sempre più appannaggio di pochissimi professionisti, e la fuga dalla professione, certificata dalle statistiche più recenti, potrebbe arrestarsi anche grazie a questa piccola-grande rivoluzione.

Massimo Carrattieri

Informazioni sull'autore

Massimo Carrattieri