Aggiornamenti in pillole

Riflessioni a margine del Protocollo Sinteticità, presentato il 6 maggio 2021, all’Osservatorio per la Giustizia Civile del Tribunale

Ha senso che avvocati e magistrati si mettano d’accordo per scrivere gli atti di loro competenza, secondo un certo layout, come si dice adesso? Ha senso che in questo testo di accordo, non vincolante, ci sia un comune impegno per ridurre lo spazio dedicato alle parole, allo scopo di favorire la incisività e la più rapida comprensibilità degli scritti? Ha senso concordare un certo ordine espositivo dello storytelling, come direbbe Baricco, così da agevolare la migliore comprensione del testo favorendo la realizzazione dell’aspettativa del lettore?
Noi pensiamo di sì ed è per questo che, proseguendo il lavoro cominciato da altri colleghi della precedente consiliatura, questo COA ha portato a compimento la redazione del Protocollo Sinteticità degli atti del processo civile, insieme a magistrati del Tribunale e a colleghi delle associazioni forensi.
È un primo passo verso l’inevitabile adeguamento che avvocati e magistrati compiono, tenuto conto delle mutate esigenze del nostro tempo, che richiede una sempre maggiore celerità ed efficienza nell’azione del quotidiano. Esigenze di contingentamento del tempo che è realisticamente possibile dedicare alla redazione e alla lettura degli atti del processo, per poter garantire di giungere alla sua conclusione in un tempo adeguato alle aspettative dei cittadini.

Ma è una vicenda tutta nuova, legata soltanto al nostro tempo, oppure ci sono precedenti?
Si racconta che, durante il periodo della colonizzazione dell’India, le Companies inglesi avessero la necessità di far fronte ad un notevole turnover, poiché i propri dipendenti difficilmente si naturalizzavano nei territori conquistati. Il turnover creava disservizio, dal momento che le abitudini personali degli impiegati degli uffici erano diverse. Da allora i capi degli uffici stabilirono regole con le quali organizzare l’impiego degli scaffali e dei cassetti di un ufficio, la collocazione di certi documenti, delle altre carte e dei materiali di cancelleria. cosicché qualsiasi impiegato che entrasse in quella stanza fosse in grado di orientarsi e di essere efficiente nel più breve tempo possibile.
Questa tecnica è alla base dell’impiego razionale del “modulo” predisposto con campi obbligatori da riempire con un certa logica. La stessa tecnica è diventata il modello organizzativo del franchising, della pagina di apertura di tutte le piattaforme (Google, Microsoft Edge ecc.) di tutti i programmi di Microsoft Office.
Si tratta di un uso razionale delle risorse, che non contrasta affatto con l’esercizio del diritto alla difesa, che è ben altra cosa.
È ragionevole adoperare le memorie dell’art. 183 c.p.c. per il fine che la stessa legge ha previsto e non come anticipazione di una comparsa conclusionale; è ragionevole evitare nella comparsa conclusionale di raccontare con dovizia di particolari il fatto processuale, se questo racconto non sia finalizzato a supportare una precisa eccezione processuale sollevata; e altro ancora. È utile che tutto ciò venga recepito in un Protocollo, così da eliminare il dubbio che il difensore può avere circa una diversa funzione di quegl’atti.

C’è poi un secondo momento cui prestare attenzione. Si tratta di una piccola, forse per certi versi grande, rivoluzione culturale che riguarda e coinvolge gli “addetti ai lavori” della funzione giudiziaria: avvocati e magistrati. Entrambi, condividendo la consapevolezza che i mezzi e le forze a disposizione della amministrazione della giustizia sono limitati, e come tali vanno ottimizzati, con il Protocollo si impegnano ad utilizzare le “parole” con le quali costruiscono i rispettivi scritti, nel modo migliore possibile: ossia nella sapiente parsimonia del loro utilizzo a beneficio della chiarezza reciproca.
È del resto lo stesso PCT (processo civile telematico) che impone il contingentamento reciproco (tra le parti, tra le parti e il giudice ed anche nei confronti delle cancellerie) della lunghezza degli atti e l’adozione di accorgimenti ad hoc per il deposito dei documenti, essenziali per il miglior funzionamento del sistema.
È noto che scrivere in modo chiaro ed essenziale è difficile; certamente più difficile ed impegnativo – paradossalmente – che scrivere un atto lungo. La sintesi, infatti, impone all’autore lo sforzo e la disciplina di concentrare l’uso delle parole a quelle strettamente necessarie ad esprimere ciò che intende comunicare. È lo sforzo della acquisizione di un forte senso critico verso se stessi e della ricerca ed accettazione della sobrietà; un valore forse in disuso, ma che in questo campo costituisce l’idonea postura dell’autore. Questi, infatti, attua l’eliminazione dal testo di tutto ciò che è di troppo; in primis la ripetizione di ciò che l’autore stesso o la controparte hanno già scritto nei precedenti atti del processo. Assai utile si rivela anche la auto censura di frasi che talvolta sono più il frutto dell’autocompiacimento del redattore, piuttosto che della tecnica del convincimento.
Utile alla chiarezza e alla efficacia comunicativa è inoltre la costruzione di periodi brevi, che prediligono il modo indicativo ed evitano le frasi incidentali, quando spezzano il periodo principale.

Insomma, il nostro compito di avvocato è di convincere il giudice della bontà del nostro ragionamento, passando per la negazione, il superamento o la dimostrazione della inadeguatezza della tesi avversaria. Il modo in cui questo obiettivo è raggiunto fa parte dell’adempimento dell’obbligazione assunta nei confronti del nostro cliente.
È ben vero che, in certe situazioni, la verbosità può diventare un argomento difensivo. Questa tecnica difensiva, quando è una scelta argomentativa, non è censurata dalle raccomandazioni del Protocollo, certo è che espone il difensore al rischio di non raggiungere l’obiettivo sperato. In certe situazioni, non resta null’altro. Ce lo ricorda anche Schopenhauer, ne L’arte di ottenere ragione, nell’ultima tesi, la n. 38, dove arriva a sostenere che, extrema ratio, può essere impiegato l’Argumentum ad personam, ossia l’attacco dell’avversario sul piano personale, prescindendo da ogni altra questione di merito.
Ma si tratta dell’ultima tesi, quella da non consigliare, perché chi la sceglie sa che ha già perso.

Cristiana Senin e Massimo Franzoni

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Cristina Senin

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