Aggiornamenti in pillole

PNRR – La riforma della Giustizia

Nell’ambito dei finanziamenti del PNRR per i Paesi dell’Unione Europea post pandemia, 191,5 miliardi sono stati stanziati per l’Italia. Di questi 2,827 miliardi sono destinati alla Giustizia.

Le linee di intervento previste sono:

  • Ufficio per il Processo e Capitale umano
  • Digitalizzazione
  • Edilizia giudiziaria

Nell’ambito Giustizia, il Governo si impegna con l’Europa ad attuare, tra l’altro, una serie di riforme relative a: processo civile, penale e insolvenza.

Ospitiamo qui sulla nostra rivista due interventi, uno riguardante la riforma della giustizia in ambito civile a cura del Prof. Paolo Biavati ed uno inerente il processo penale a cura del Prof. Nicola Mazzacuva.


Prime annotazioni sulla riforma della giustizia civile

 

Il 25 novembre scorso il Parlamento ha definitivamente approvato la legge di delega al Governo (così la denominazione ufficiale) per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata; il successivo 9 dicembre la legge veniva pubblicata in Gazzetta Ufficiale.

La vicenda della riforma è stata complessa e non sempre lineare.

Da tempo il processo civile era oggetto di attenzioni del legislatore: dalle ripetute modificazioni al codice, non di rado contenute in decreti legge estivi, che si sono succedute specialmente a partire dal 2011, fino all’ipotesi di una riforma più vasta, durante la XVII° legislatura, che aveva conseguito l’approvazione dalla Camera ma che non aveva completato l’iter parlamentare. Subito dopo l’insediamento del primo governo Conte, il guardasigilli Bonafede ha iniziato un lavoro di preparazione di un intervento di ampio respiro, che si è tradotto nel disegno di legge delega n. 1662, presentato al Senato il 9 gennaio 2020.

Lo scoppio della pandemia del Covid 19 ha spostato l’attenzione sui noti provvedimenti emergenziali (dalla sospensione dei termini all’introduzione delle udienze civili cartolari e da remoto), rallentando comprensibilmente l’iter della riforma. Il Parlamento, tuttavia, stava lavorando agli emendamenti sul testo Bonafede, quando, caduto il secondo governo Conte, la nuova ministra della Giustizia dell’esecutivo Draghi, Marta Cartabia, ha dato un nuovo e diverso impulso al disegno riformatore.

La ministra, dopo avere reso pubbliche le proprie linee programmatiche, ha nominato una commissione di esperti, presieduta da Francesco Luiso, con il compito di elaborare proposte in tema di giustizia civile, partendo dal testo Bonafede, ma con ampio mandato a discostarsene. La commissione (in cui, detto per incidens, non era rappresentata direttamente l’avvocatura) ha lavorato in tempi strettissimi: si è insediata il 18 marzo 2021 e ha consegnato l’elaborato il successivo 22 aprile, in modo che se ne potesse tenere conto all’interno del Piano nazionale di ripresa e resilienza, che doveva essere presentato a Bruxelles entro il 30 aprile 2021.

Occorre sottolineare, infatti, che in tutta questa fase la discussione sulla riforma è stata dominata da una specifica esigenza: presentare proposte che riducessero i tempi della giustizia e fossero ritenute plausibili dalla Commissione europea, in vista dell’erogazione all’Italia dei fondi del Pnrr.

Il governo, sulla base delle proposte della commissione Luiso, ma anche compiendo scelte del tutto autonome, ha presentato una serie di emendamenti al disegno di legge delega n. 1662. Questi emendamenti sono stati ampiamente discussi e in parte a loro volta modificati dalla commissione Giustizia del Senato, fino a giungere al testo finale, approvato dalla camera alta il 21 settembre e dalla Camera, in via definitiva, il 25 novembre 2021.

La legge di riforma si propone di giungere all’obiettivo, pattuito con l’Unione europea, di una drastica riduzione dei tempi di durata dei processi civili, pari al 40% entro il 2026.

A questo fine, si muove su tre direttrici: a) il potenziamento della struttura organizzativa della giustizia, mediante la migliore regolazione e l’assegnazione di importanti risorse all’ufficio del processo; b) una politica di sostegno delle forme alternative di risoluzione delle controversie; c) numerose modifiche della disciplina processuale.

È perfettamente noto a tutte le colleghe e i colleghi avvocati che i ritardi della giustizia civile non dipendono, se non in misura minima, dal modo di essere delle regole del codice e che la funzionalità delle forme alternative è strettamente connessa alla credibile efficacia del processo giurisdizionale. Ne segue che, di queste tre leve, una sola è davvero essenziale, vale a dire quella che punta a migliorare l’organizzazione giudiziaria.

Ora, si auspicava che una parte consistente dei fondi del Pnrr fosse assegnata alla giustizia, per l’assunzione di nuovi magistrati, il miglioramento delle capacità informatiche, l’acquisizione di sedi più adatte. In realtà, avviene il contrario: è la giustizia che – senza nuovi fondi adeguati – deve ottenere risultati, ai quali è condizionata l’erogazione dei denari europei, destinati però ad altri (seppure importanti) settori economici ed amministrativi del paese.

Se i circa ottomila giovani che andranno ad implementare l’ufficio del processo, all’interno dei vari organi giurisdizionali, civili e penali, potranno costituire la task force decisiva per eliminare l’arretrato e ridurre i tempi, è domanda aperta, su cui, peraltro, non pochi magistrati sembrano nutrire perplessità. Occorre capire, però, che è qui (e non sui ritocchi al codice o su qualche mediazione in più) che si vince o si perde la partita.

Il breve spazio di queste note non permette uno sguardo, neppure superficiale, sulle molte norme processuali che verranno modificate. Del resto, soltanto i decreti delegati che il Governo presenterà entro un anno dall’entrata in vigore della legge delega (ma l’obiettivo è di terminare il lavoro entro l’estate del 2022) potranno presentare il volto, definitivo ed operativo, della riforma.

La legge delega, infatti, investe il primo grado, sia nella fase introduttiva che in quella decisoria; rafforza il rito sommario, che prende il nome di rito semplificato di cognizione; razionalizza le impugnazioni, sia recuperando istituti noti (come il consigliere istruttore in appello), sia sperimentando nuove soluzioni (come il rinvio pregiudiziale in Cassazione); stabilizza le forme delle udienze emergenziali; accelera sul processo telematico; ritocca l’arbitrato (ad esempio, ammettendo poteri cautelari agli arbitri) e l’esecuzione forzata, con particolare riferimento all’espropriazione immobiliare.

Mi soffermo, quindi, brevemente, su due soli aspetti.

In sede di emendamento governativo, l’esecutivo, con scelta autonoma (e certo non condivisa da vari componenti della commissione Luiso, fra i quali chi scrive), ha optato per l’introduzione delle preclusioni, non soltanto assertive, ma anche istruttorie fino dall’atto di citazione e, correlativamente, dalla comparsa di risposta. La soluzione, francamente sbagliata, in specie per le cause soggettivamente e oggettivamente complesse, è apparsa frutto della volontà di esibire all’Europa una volontà di accelerazione dei tempi processuali. La scelta del Governo è stata sommersa di critiche, sia della dottrina che delle diverse componenti dell’avvocatura. In sede di confronto parlamentare, l’esecutivo è stato quindi costretto a fare, almeno in parte, marcia indietro. Ne è uscita una formula di compromesso, poco soddisfacente anche se certo meno peggiore di quella contenuta nell’emendamento: cadono le preclusioni istruttorie negli atti introduttivi e le attuali memorie dell’art. 183, comma 6°, c.p.c. vengono accorpate in due momenti e anticipate rispetto all’udienza di trattazione.

Un altro profilo di rilievo è quello della riforma del processo in materia di famiglia, che si sviluppa su due linee. In primo luogo, si costruisce un rito tendenzialmente unitario, che supera l’attuale frammentazione di procedimenti e che potenzia gli aspetti del contraddittorio e del giusto processo. In secondo luogo, si istituisce il tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie, che accorpa le competenze attualmente suddivise fra il tribunale per i minorenni e il tribunale ordinario, con una positiva razionalizzazione.

In questa fase, più che fare pronostici sugli esiti concreti della riforma, è opportuno concentrarsi sull’immediato.

A mio avviso, occorre, se così posso esprimermi, fare il tifo per la riforma: gli avvocati hanno bisogno di vendere ai clienti un prodotto spendibile ed è fin troppo evidente che oggi le cose non vanno. A prescindere dalle novità processuali, la riforma cavalca l’onda del progresso tecnologico e disegna un paradigma nuovo per l’attività giudiziaria, caratterizzato dalle udienze cartolari e da remoto, dalle notificazioni a mezzo pec, dalla sinteticità degli atti. Di tutto questo, occorre essere pronti a cogliere le opportunità.

Molto dipenderà da che cosa sarà scritto nei decreti delegati. Su vari aspetti, i principi di delega lasciano ampio spazio al legislatore delegato. Mi auguro che, in questa fase fondamentale, l’avvocatura sia responsabilmente coinvolta e che si facciano scelte politiche nel senso delle garanzie e non della rapidità fine a se stessa.

Ancora, si dovrà lavorare (anche mediante l’esperienza dei protocolli) per assicurare l’interpretazione utile delle nuove norme: vale a dire quella che, a parità di plausibile lettura, meglio assicuri la concreta funzionalità degli organi giudiziari.

Tutto questo, senza attendersi dalla riforma effetti magici, ma mettendo in campo le uniche armi serie: l’impegno e il lavoro.

Paolo Biavati
Ordinario dell’Università di Bologna


La riforma della giustizia penale: una lettura delle novità processuali anche nella prospettiva del diritto penale sostanziale

 

La riforma ambisce a snellire e rendere più efficiente il sistema della giustizia penale nella prospettiva della ‘ragionevole durata’ del processo.

Sono previste, anzitutto, alcune modifiche di carattere organizzativo, come l’implementazione dell’ufficio del processo (che dovrà essere istituito anche presso la Corte di Cassazione e le Procure) e la telematizzazione anche del processo penale. Sempre nell’ambito degli interventi di carattere (apparentemente) organizzativo, si segnala la delega in materia di indicazione delle priorità al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre. La versione finale della delega (art. 1, comma 9, lett. i) in ordine a questa misura organizzativa – inizialmente rimessa alle singole Procure, sentiti il Procuratore Generale e il Presidente del Tribunale – è stata adottata a seguito di un emendamento parlamentare che, di fatto, rimette al Parlamento l’individuazione di una disciplina “quadro” all’interno della quale potranno determinarsi i Procuratori della Repubblica. In questo modo, da scelta meramente organizzativa (fondata sulla realtà criminologica del singolo contesto sociale), l’indicazione parlamentare delle priorità nell’esercizio dell’azione penale diventerà un vero e proprio strumento di politica criminale. È in qualche misura un primo passo verso l’abbandono del dogma dell’obbligatorietà dell’azione penale (a Costituzione invariata, ma almeno con l’intervento dell’organo istituzionalmente detentore del potere di compiere scelte di politica criminale).

Alcuni interventi sono volti a quella che è stata chiamata “responsabilizzazione” del PM. Decisamente interessante appare la modifica in materia di archiviazione: si prevede – come da più parti si auspicava – che il PM debba richiedere l’archiviazione tutte le volte in cui gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non consentono una ‘ragionevole previsione di condanna’. Sempre nella stessa ottica si muove l’intervento – che verosimilmente sarà tra i più controversi della riforma – relativo al controllo sull’inerzia del PM. La delega prevede l’introduzione di una disciplina che, trascorso un certo tempo (che varia a seconda del tipo di reato) dalla scadenza del termine di conclusione delle indagini senza che il PM abbia assunto alcuna iniziativa, preveda un obbligo di discovery degli atti di indagine svolti a favore dell’indagato e della persona offesa. È stato, tuttavia, eliminato dalla delega il principio che imponeva la previsione di sanzioni disciplinari per il PM in caso di inerzia. Di estrema importanza appare anche la previsione di un istituto che introduca un controllo giurisdizionale sulla tempestività delle iscrizioni e contestualmente sanzioni con l’inutilizzabilità gli atti compiuti fuori termine. La modifica all’attuale disciplina (che non prevede alcun controllo né sull’iscrizione della notizia né sul nome dell’indagato, con la conseguente possibilità di posticipare a discrezione del PM l’inizio del decorso del termine di conclusione delle indagini preliminari) appare piuttosto articolata, prevedendo innanzitutto dei presupposti per l’iscrizione ed in secondo luogo – in caso di richiesta motivata dell’interessato – la possibilità per il giudice in caso di ingiustificato ed inequivocabile ritardo di procedere alla retrodatazione dell’iscrizione (con conseguente inutilizzabilità degli atti compiuti fuori termine).

La delega prevede anche una riforma della formula dell’art. 425, c. 3, c.p.p. in base alla quale deve essere pronunciata sentenza di non luogo a procedere ogni volta che gli elementi di prova acquisiti risultino insufficienti, contraddittori o comunque non consentano una ragionevole previsione di accoglimento della prospettazione accusatoria in giudizio. Dunque, non più un controllo soltanto processuale sull’utilità della fase dibattimentale, ma un vero e proprio ‘controllo di merito’ sulla fondatezza dell’accusa. La delega affronta anche il profilo della non chiarezza della richiesta di rinvio a giudizio, sancendo che quando questa non rispetta i requisiti previsti dall’art. 417 c.p.p. il giudice può anche d’ufficio, sentite le parti, dichiararne la nullità e restituire gli atti al PM.

Parte importante della riforma è quella relativa ai meccanismi deflattivi. Era attesa la modifica in tema di procedibilità e la delega prevede, infatti, l’estensione della procedibilità a querela per i reati contro la persona e contro il patrimonio (caratterizzati dal valore ‘privato’ dell’offesa o dall’esiguità di quest’ultima) che siano puniti con pena detentiva non superiore nel mimino a due anni e che per la determinazione di questa non si tenga conto delle circostanze (diventerebbero così a querela, ad esempio, tutti i furti o le truffe). La procedibilità a querela è stata estesa anche al reato di lesioni stradali gravi o gravissime.

Anche in materia di pena pecuniaria, rispondendo alle sollecitazioni più volte provenienti dalla Corte Costituzionale sia per restituire effettività alla pena pecuniaria (i cui tassi di riscossione sono estremamente bassi), sia per individuare un meccanismo di conversione che renda proficuo il ricorso alla pena pecuniaria come sostitutiva delle pene detentive brevi, la delega prevede – tra l’altro – una modifica del meccanismo di conversione, stabilendo che il valore giornaliero minimo può essere individuato in maniera indipendente dalla somma indicata dall’art. 135 c.p. Ancora in ottica di deflazione carceraria si muove l’intervento in materia di sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi di cui alla l. 689/1981. Si tratta di un intervento articolato e radicale, che prevede una razionalizzazione delle sanzioni sostitutive, con l’eliminazione di quelle ritenute meno efficaci (con abolizione della semidetenzione e della libertà controllata); la loro applicazione soltanto quando il giudice ritenga che esse contribuiscano alla rieducazione del condannato, ma la possibilità di farlo con ampio margine direttamente nella sentenza di condanna alla pena detentiva inferiore a quattro anni; il coordinamento con le misure alternative alla detenzione previste dall’ordinamento penitenziario. Anche l’istituto della particolare tenuità del fatto verrà ampliato: cambia il criterio generale di applicazione della causa di non punibilità, non più tarata sul massimo edittale (fino a 5 anni), ma sul minimo (non superiore a due anni); dovrà essere dato rilievo alla condotta susseguente al reato ai fini della valutazione del carattere di particolare tenuità.

Molteplici sono le modifiche in materia di impugnazioni. Intanto cambiano le modalità di deposito dell’atto d’appello: si potrà presentare soltanto presso la cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento, ma questo potrà avvenire anche con modalità telematiche. Altra modifica riguarda le limitazioni alla presentazione dell’appello. La proposta della Commissione Lattanzi prevedeva un’ampia serie di atti inappellabili. La delega prevede soltanto l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento o di non luogo a procedere relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa, le sentenze di condanna a pena sostituita con lavoro di pubblica utilità.

Ancora, tra le modifiche al giudizio d’appello vi è la previsione che il processo d’appello si svolga con rito camerale non partecipato, salvo che la parte appellante o, in ogni caso, l’imputato o il suo difensore richiedano di partecipare all’udienza: il giudizio di gravame, dunque, sarà di norma caratterizzato da un contraddittorio soltanto cartolare e la decisione sarà fondata sul medesimo materiale probatorio acquisito e delibato in primo grado. Il diritto dell’imputato e del suo difensore di richiedere la discussione orale si atteggia come vero e proprio diritto potestativo.

Il vero punto controverso delle modifiche al giudizio d’appello, tuttavia, riguarda la previsione dell’inammissibilità dell’appello per mancanza di specificità dei motivi, quando nell’atto manchi la puntuale ed esplicita enunciazione dei rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto e di diritto espresse nel provvedimento impugnato. Si vuol dare, così, seguito normativo alla massima espressa dalle Sezioni Unite (n. 8825/16) del 2016, ma va senz’altro osservato che la verifica circa la corrispondenza tra le critiche mosse e la sentenza è palesemente un giudizio di merito e non può essere fatto attraverso un percorso processuale semplificato quale quello dell’inammissibilità: occorre, quindi, vigilare affinchè il giudizio sulle ragioni di critica della prima decisione di merito rimanga – com’è giusto che sia – proprio una valutazione di merito che può intervenire soltanto una volta che sia instaurato il rapporto processuale garantendosi, così, l’esercizio  anche in fase di appello del fondamentale diritto di difesa.

La riforma poi torna di nuovo a regolare l’istituto della rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in caso di appello del PM contro una decisione assolutoria: l’art. 603 comma 3-bis verrà di nuovo modificato, nel senso di prevedere che in caso di appello contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale sia limitata ai soli casi di prove dichiarative assunte in udienza nel corso del giudizio di primo grado. Viene pertanto esclusa la prova assunta in incidente probatorio (questo per contrastare un orientamento interpretativo che si era manifestato di recente che affermava che la prova assunta in incidente probatorio andava in ogni caso assunta nuovamente in appello).

Anche il giudizio di Cassazione è stato modificato. Analogamente a quanto previsto per l’appello, anche in Cassazione il contraddittorio sarà soltanto cartolare, salvo che una delle parti non faccia richiesta di discussione orale. Tuttavia, a differenza di quanto disposto rispetto al giudizio d’appello, potrà essere anche la stessa Corte a ritenere necessaria la trattazione orale; infine la discussione orale dovrà avvenire ogni volta che la Corte ritenga di dare al fatto una qualificazione giuridica diversa.

Ritengo, conclusivamente, che nella prospettiva di rendere più fluido il processo penale sarebbe stato (e rimane sempre) comunque utile anche far capo al diritto penale sostanziale che può positivamente incidere sul momento processuale e financo realizzare prontamente (persino immediatamente) l’obiettivo di una forte riduzione dei tempi del processo penale per renderlo di ‘ragionevole durata’.

E anche in quest’ultimo periodo non sono, del resto, mancati (nel  dibattito quotidiano) interventi  volti a sottolineare che è il momento di intervenire sul ‘panpenalismo’ in quanto ormai “i cittadini italiani non sanno se quanto da loro posto in essere sia una condotta lecita o illecita” (B. Migliucci su ‘Il Dubbio’ del 2 settembre 2021); ovvero a segnalare che “per riuscire ad abbattere il sovraccarico giudiziario la via maestra è la depenalizzazione” (F. Giunta, secondo cui “senza una riduzione del numero dei procedimenti in entrata, l’obiettivo deflattivo [cui mira l’attuale riforma del processo penale] non sarà pienamente centrato e nemmeno quello della ragionevole durata”: su Il Dubbio, del 24 agosto 2021; opinione di poi autorevolmente condivisa dal vicepresidente del CSM che ha espressamente formulato l’auspicio “che si sfoltisca [entro questa legislatura] il catalogo dei reati con misure incisive di depenalizzazione”: Il Riformista, 25 settembre 2021).

Né va dimenticato quell’istituto – di  rilievo costituzionale – rappresentato dall’amnistia il cui periodico impiego sino al 1990 (e in qualsiasi momento – sino ad allora – della storia del diritto penale: nell’ordinamento liberale, in quello dello stato autoritario e, di poi, in quello democratico) ha prodotto anche (e soprattutto) benefici effetti di politica criminale; basti pensare, appunto, all’ultima amnistia (appunto del 1990) finalizzata proprio a ‘liberare’ il nuovo processo penale (dopo la sua entrata in vigore) da una moltitudine di inutili verifiche giudiziarie.

Istituto – la causa di estinzione rappresentata dall’amnistia – cui, del resto, hanno richiesto di far ricorso i massimi esponenti della società civile (intendo riferirmi al noto e formale messaggio indirizzato alle Camere nell’ottobre 2013 dall’allora Presidente della Repubblica) e della Comunità religiosa (l’attuale Pontefice), nonché – da ultimo – illustri studiosi e magistrati associati (ad es., lo stesso  M. Donini; Magistratura Democratica). Ricordando, infine, che anche gli avvocati penalisti italiani con la loro nota associazione (UCPI) hanno, altresì, affidato – anche e proprio in una prospettiva ‘ideale’ proiettata in ambito sovranazionale – al ‘Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo’ la compiuta e aggiornata descrizione del percorso finalizzato al ripristino dei principi fondamentali dell’intera materia penalistica. Basta menzionare di tale documento (articolato sul piano del diritto penale sostanziale e processuale) proprio il primo canone secondo cui, appunto, “in materia penale principi e limiti implicano sempre dei costi di fronte alle manifestazioni del crimine. In caso contrario principi e limiti sono inutili declamazioni astratte”.

Nicola Mazzacuva
Ordinario dell’Università di Bologna

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Paolo Biavati

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