Aggiornamenti in pillole

La responsabilità sanitaria dopo la riforma Gelli – Bianco

Introduzione

La legge 8 marzo 2017, n. 24, su “disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie”, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, serie Generale, n. 64 del 17 marzo 2017 ed entrata in vigore il 1° aprile 2017 (c.d. legge Gelli – Bianco), si è posta l’obiettivo di risolvere le questioni rimaste insolute in sede di applicazione della precedente legge 8 novembre 2012, n. 189 (c.d. legge Balduzzi), in principale luogo per affermare definitivamente la natura extracontrattuale della responsabilità del medico verso il paziente, dopo che la giurisprudenza aveva, com’è noto, scelto la via della responsabilità contrattuale da contatto sociale.

Il punto di partenza di tale evoluzione rimane l’art. 2236 c.c., che allo scopo di non pregiudicare il progresso della scienza e dell’arte di fronte a casi obiettivamente difficili ha previsto che quando la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera risponde solo per dolo o colpa grave. Nel caso della responsabilità medica, dopo che la giurisprudenza inizialmente aveva ricondotto quella del medico all’alveo della responsabilità extracontrattuale, per di più con la limitazione derivante dall’applicazione del citato art. 2236 c.c. che escludeva la responsabilità da colpa lieve nel caso di imperizia, si è via via diffusa, a partire dalla nota Cass., 22 gennaio 1999, n. 589, la sua oggettivazione e la riconducibilità di essa all’art. 1218 c.c., col conseguente rovesciamento dell’onere probatorio. Emblematica in tal senso è la sentenza della Corte di Cassazione, n. 6209 del 31 marzo 2016, ove si riafferma il principio secondo cui “la struttura e i sanitari che siano convenuti in giudizio per ipotesi di malpractice sono tenuti a fornire la prova liberatoria richiesta dall’art. 1218 c.c., con la conseguenza che il mancato raggiungimento di tale prova (compreso il mero dubbio sull’esattezza dell’adempimento) non può che ricadere a loro carico”.

Il riferimento, nell’art. 3 della legge Balduzzi 189/2012, all’art. 2043 c.c. non era parso idoneo, quanto meno nella giurisprudenza di legittimità e in parte di quella di merito, a superare questo orientamento, essendo stato ritenuto indicativo unicamente della volontà del legislatore di riferirsi, nel dettare il ciato art. 3, al sistema della responsabilità civile, la cui norma di riferimento è appunto nell’art. 2043 c.c. (in tal senso Cass., 19 febbraio 2013, n. 4030).

Dunque, nei suoi tratti fondamentali, la legge Gelli – Bianco ha innovato soprattutto laddove ha regolato la responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria, escludendo l’imperizia laddove il medico si sia attenuto alle linee guida validate e pubblicate online dall’Istituto Superiore di Sanità, ed altresì, trattando la responsabilità civile, prevedendo che gli esercenti la professione sanitaria i quali operino a qualsiasi titolo presso una struttura sanitaria sono responsabili a titolo extracontrattuale per colpa, ai sensi dell’art. 2043 c.c., mentre le strutture sanitarie risponderanno a titolo di responsabilità contrattuale.

Tali interventi si collocano comunque entro una realtà complessa, segnata per un verso dal progresso continuo della medicina e per l’altro dalla risposta non univoca, per la diversità di ciascun essere umano, alle cure, il che rende impossibile definire ex ante con certezza la condotta adeguata da tenere nel prestare le cure ed espone, per l’opinabilità della materia, ad azioni risarcitorie in misura più ampia rispetto ad altre tipologie di attività.

La riforma operata dalla legge 24/2017 realizza comunque un’organica disciplina che spazia dalla tutela del diritto alla salute, con l’attribuzione al Difensore Civico del ruolo di garante per il diritto alla salute, alla responsabilità penale e civile degli esercenti la professione sanitaria. L’obiettivo dichiarato è stato quello di mettere il paziente al centro della tutela, entro un sistema che assicuri efficienza, definendo le responsabilità, ma al contempo evitando il diffondersi di una medicina “difensiva”, mirata più a tutelare il medico e le strutture sanitarie che a perseguire con ogni mezzo la guarigione del paziente.

La responsabilità medica civile

L’art. 7 della legge 24/2017 ha tracciato con precisione la linea di demarcazione fra la responsabilità del medico operante all’interno di una struttura sanitaria pubblica o privata e quella della stessa struttura sanitaria o del suo personale, riconducendo la prima all’area extracontrattuale e la seconda a quella contrattuale.

L’esercente la professione sanitaria (a meno che non abbia agito nell’esecuzione di una obbligazione assunta direttamente col paziente) è dunque chiamato a rispondere in base all’art. 2043 c.c., con le note conseguenze: incombe sul danneggiato la prova del fatto illecito, del dolo o della colpa del medico, del danno e del rapporto di causalità tra il fatto e il danno; il termine di prescrizione è di cinque anni.

Come accennato in premessa, si tratta di una presa di posizione forte a favore dell’applicazione dell’art. 2043 c.c. alla responsabilità qui in esame, dopo che quella di cui alla legge 189/2012 era parsa sfuggente (l’art. 3, comma 1, prevedeva che “l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo”) e pertanto non aveva sortito l’effetto di mutare l’orientamento, fondato sulla responsabilità contrattuale da contatto sociale, della giurisprudenza di legittimità e di parte di quella di merito. A questo proposito è interessante notare, per rimarcare la sua portata innovativa, che la legge 24/2017 interviene sul punto muovendo nella direzione opposta rispetto alla Corte di Cassazione, che con la storica sentenza 12 luglio 2016, n. 14188 aveva mutato il secolare orientamento sulla natura aquiliana della responsabilità precontrattuale, affermando la sua natura contrattuale, fondata sul contatto sociale. Tale sentenza trae spunto proprio dai precedenti in materia di responsabilità dell’esercente la professione sanitaria per tratteggiare il concetto di responsabilità da contatto sociale, laddove rammenta che “in tema di responsabilità del sanitario, questa Corte ha affermato che il rapporto che si instaura tra paziente e casa di cura (o ente ospedaliero) ha la sua fonte in un atipico contratto a prestazioni corrispettive con effetti protettivi nei confronti del terzo, da cui, a fronte dell’obbligazione al pagamento del corrispettivo (che ben può essere adempiuta dal paziente, dall’assicuratore, dal servizio sanitario nazionale o da altro ente), insorgono a carico della casa di cura (o dell’ente), accanto a quelli di tipo «latu sensu» alberghieri, obblighi di messa a disposizioni del personale medico ausiliario, del personale paramedico e dell’apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze (Cass. 13953/2007; 18610/2015). Nei confronti del medico dipendente, invece, la responsabilità, ove non tragga origine da un contratto di prestazione d’opera professionale (qualora sia lo stesso paziente a rivolgersi ad un determinato professionista), viene a radicarsi in un «contatto sociale qualificato», che si instaura per effetto della «presa in carico» del paziente da parte del sanitario operante presso la casa di cura o l’ente ospedaliero, e dal quale scaturiscono obblighi di protezione che comportano, in caso di loro violazione, una responsabilità di tipo contrattuale del sanitario, ai sensi dell’articolo 1218 cod. civ. (cfr. Cass. S.U. 577/2008; Cass. 1538/2010; 20904/2013; 27855/2013; 20547/2014; 21177/2015)”. Vi è da chiedersi perciò se la giurisprudenza accetterà di buon grado l’inversione di tendenza che ora la legge 24/2017 impone rispetto all’allargamento in atto dei confini della responsabilità da contatto sociale.

L’art. 7, comma 3, seconda parte della legge 24/2017 prevede che “il giudice, nella determinazione del risarcimento del danno, tiene conto della condotta dell’esercente la professione sanitaria ai sensi dell’articolo 5 della presente legge e dell’articolo 590-sexies del codice penale, introdotto dall’articolo 6 della presente legge”. A sua volta il citato art. 5 stabilisce che “gli esercenti le professioni sanitarie, nell’esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale, si attengono, salve le specificità del caso concreto, alle raccomandazioni previste dalle linee guida pubblicate ai sensi del comma 3 ed elaborate da enti e istituzioni pubblici e privati nonché dalle società scientifiche e dalle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie iscritte in apposito elenco istituito e regolamentato con decreto del Ministro della salute, da emanare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, e da aggiornare con cadenza biennale. In mancanza delle suddette raccomandazioni, gli esercenti le professioni sanitarie si attengono alle buone pratiche clinico-assistenziali”; quanto al nuovo art. 590-sexies c.p., esso prevede che qualora la morte o le lesioni personali in ambito sanitario si siano verificati “a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto”.

Sul concetto di linee guida che si erge a fondamento della responsabilità civile e penale dell’esercente la professione forense può essere utile richiamare la definizione data dalla sentenza della Corte di Cassazione Penale del 7 giugno 2017, n. 28187, secondo cui “le linee guida – alla stregua delle acquisizioni ad oggi consolidate – costituiscono sapere scientifico e tecnologico codificato, metabolizzato, reso disponibile in forma condensata, in modo che possa costituire un’utile guida per orientare agevolmente, in modo efficiente ed appropriato, le decisioni terapeutiche. Si tenta di oggettivare, uniformare le valutazioni e le determinazioni; e di sottrarle all’incontrollato soggettivismo del terapeuta. I vantaggi di tale sistematizzata opera di orientamento sono tanto noti quanto evidenti. Tali regole, di solito, non danno luogo a norme propriamente cautelari e non configurano, quindi, ipotesi di colpa specifica. Esse, tuttavia hanno a che fare con le forti istanze di determinatezza che permeano la sfera del diritto penale. Infatti, la fattispecie colposa ha necessità di essere eterointegrata non solo dalla legge, ma anche da atti di rango inferiore, per ciò che riguarda la concreta disciplina delle cautele, delle prescrizioni, degli aspetti tecnici che in vario modo fondano il rimprovero soggettivo. La discesa della disciplina dalla sfera propriamente legale a fonti gerarchicamente inferiori che caratterizza la colpa specifica costituisce peculiare, ineliminabile espressione dei principi di legalità, determinatezza, tassatività. La fattispecie colposa, col suo carico di normatività diffusa, e per la sua natura fortemente vaga, attinge il suo nucleo significativo proprio attraverso le precostituite regole alle quali vanno parametrati gli obblighi di diligenza, prudenza, perizia. Dunque, le linee guida hanno contenuto orientativo, esprimono raccomandazioni; e vanno distinte da strumenti di «normazione» maggiormente rigidi e prescrittivi, solitamente denominati «protocolli» o check list. Esse non indicano una analitica, automatica successione di adempimenti, ma propongono solo direttive generali, istruzioni di massima, orientamenti; e, dunque, vanno in concreto applicate senza automatismi, ma rapportandole alle peculiari specificità di ciascun caso clinico. Potrà ben accadere che il professionista debba modellare le direttive, adattandole alle contingenze che momento per momento gli si prospettano nel corso dello sviluppo della patologia e che, in alcuni casi, si trovi a dovervi addirittura derogare radicalmente”.

Un merito della legge 24/2017 è certamente quello di avere fatto chiarezza sull’identità dei redattori delle linee guida, dopo che la legge 189/2012 si era limitata ad indicare una non meglio specificata “comunità scientifica”. Rimane comunque salva l’esigenza di verificare la specificità del caso concreto e con essa l’indipendenza di giudizio e la libertà di scelta del professionista. Può dirsi dunque che così come la mancata adesione alle linee guida non rende il medico responsabile, ove si dimostri la peculiarità del caso concreto e comunque l’utilizzo di strumenti di comprovata idoneità, del pari l’adesione alle linee guida può non escludere la responsabilità dell’esercente la professione sanitaria, ove risulti che il caso concreto presentava peculiarità tali da suggerire di discostarsene.

Un altro profilo di rilievo riguarda il rapporto fra le linee guida e l’art. 2246 c.c., a mente del quale “se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave”. La giurisprudenza di legittimità ha interpretato la norma limitando l’esclusione della rilevanza della colpa lieve al solo profilo dell’imperizia e dunque lasciando inalterato il criterio di determinazione dell’elemento soggettivo costituito sia dalla colpa grave, sia dalla colpa lieve nei casi di negligenza e imprudenza, e ciò perché la soluzione dei problemi tecnici attiene appunto alla perizia del prestatore d’opera (si veda per esempio Cass. Pen., 27 aprile 2015, n. 26996). Dunque la condotta costituita dall’inosservanza delle linee guida quando le stesse dovevano essere applicate o quella consistente nella loro applicazione quando la peculiarità della situazione richiedeva una condotta opposta, riguardano la perizia e secondo l’art. 2246 c.c. espongono a responsabilità nel caso di dolo o colpa grave se vi era sottesa la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà.

L’innovazione contenuta nella legge 24/2017 pone un problema di successione delle leggi nel tempo, che in sede civile riguarda l’applicabilità della legge stessa a fatti generatori di presunta responsabilità compiuti anteriormente. A tale riguardo, secondo una recente pronuncia del Tribunale di Avellino (su http://ridare.it/articoli/news/la-legge-gelli-bianco-non-retroattiva), si deve considerare il pacifico orientamento giurisprudenziale secondo cui dal principio di irretroattività della legge deriva che la legge nuova non può essere applicata ai rapporti sorti anteriormente alla sua entrata in vigore, ed ancora in essere, se in questo modo “si disconoscano gli effetti già verificatesi al fatto passato o si venga a togliere efficacia, in tutto o in parte, alle conseguenze attuali e future di esso”; pertanto l’applicazione retroattiva è ammessa solo per trattare le situazioni da prendere in considerazione autonomamente rispetto al fatto che le ha generate, perché in questo modo non si incide sulla disciplina giuridica del fatto generatore (in questo senso, fra le tante, Cass., 3 luglio 2012, n. 16620). Nel caso di specie, secondo il Tribunale, “l’applicazione della Legge Gelli a fatti già verificatesi al momento della sua entrata in vigore inciderebbe negativamente sul fatto generatore del diritto alla prestazione, ledendo così ingiustificatamente il legittimo affidamento dei consociati in ordine al regime contrattuale della responsabilità del medico. Pertanto la responsabilità civile discendente da fatti verificatisi prima dell’entrata in vigore della legge 24/2017 continuano ad essere regolati dal previgente quadro normativo, con la conseguente applicazione dell’orientamento giurisprudenziale sulla responsabilità contrattuale da contatto sociale ed i suoi corollari in tema di onere della prova e di prescrizione.

La responsabilità della struttura sanitaria

Secondo l’art. 7 della legge 24/2017, la struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che, nell’adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell’opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa, risponde, ai sensi degli articoli 1218 e 1228 c.c., delle loro condotte dolose o colpose. La medesima disciplina si applica anche alle prestazioni sanitarie svolte in regime di libera professione intramuraria ovvero nell’ambito di attività di sperimentazione e di ricerca clinica ovvero in regime di convenzione con il Servizio Sanitario Nazionale o attraverso la telemedicina.

Dalla natura contrattuale della responsabilità discendono varie conseguenze: il paziente deve provare solo il titolo da cui deriva l’obbligazione, mentre spetta alla struttura sanitaria liberarsi dalla responsabilità dimostrando l’esatto adempimento o la non imputabilità dell’inadempimento; il danno risarcibile, salva la prova del dolo, è limitato a quello che poteva prevedersi al tempo in cui è sorta l’obbligazione; il termine di prescrizione è decennale.

Nello stesso art. 7 qui in esame convivono sia l’affermazione secondo cui quanto in esso disposto ha natura di norma imperativa, sia il richiamo all’art. 1228 c.c., a mente del quale “il debitore che nell’adempimento dell’obbligazione si vale dell’opera di terzi, risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro”, ma “salva diversa volontà delle parti”. C’è da chiedersi perciò se la natura imperativa dell’art. 7 impedisca la deroga prevista dall’art. 1228 c.c. e dunque non consenta alla struttura sanitaria di pattuire la liberazione di responsabilità per il fatto degli ausiliari, oppure se il richiamo esplicito all’art. 1228 c.c. costituisca una deroga alla generale portata imperativa della norma. La prima soluzione è senz’altro preferibile, non potendosi ammettere che la norma consenta indirettamente, attraverso il richiamo all’art. 1228 c.c., ciò che direttamente vieta, vale a dire la deroga alla regola della responsabilità della struttura sanitaria per i fatti compiuti dal personale di cui si avvale.

Il danno risarcibile

L’art. 7, comma 4 della legge 24/2017 indica il criterio per il risarcimento del danno: “il danno conseguente all’attività della struttura sanitaria o sociosanitaria, pubblica o privata, e dell’esercente la professione sanitaria è risarcito sulla base delle tabelle di cui agli articoli 138 e 139 del codice delle assicurazioni private, di cui al decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, integrate, ove necessario, con la procedura di cui al comma 1 del predetto articolo 138 e sulla base dei criteri di cui ai citati articoli, per tener conto delle fattispecie da esse non previste, afferenti alle attività di cui al presente articolo”.

Si rammenta a questo proposito che gli artt. 138 e 139 del codice delle assicurazioni sono stati modificati dalla legge “concorrenza” del 4 agosto 2017, n. 124, che ha posto problemi applicativi sui quali è appena iniziato il dibattito dottrinale, ma che in linea generale sembra avvalorare la visione unitaria del danno morale ed in questo modo costituire l’approdo del percorso intrapreso dalle Sezioni Unite con la sentenza 11 novembre 2008, n. 26972, ove si è affermata l’unitarietà della categoria del danno non patrimoniale da lesione alla salute, quale categoria omnicomprensiva, che da un lato tenga conto di tutti i pregiudizi sofferti dalla vittima e dall’altro eviti di duplicare le voci danno, attribuendo ad esse nomi diversi quali il danno morale, il danno esistenziale, il danno da perdita parentale ecc.

Da segnalare che per tale richiamo agli artt. 138 e 139 del codice delle assicurazioni private vale il dettato dell’ultimo comma dello stesso articolo, secondo cui le disposizioni in esso previste “costituiscono norme imperative ai sensi del codice civile”. Dunque con scarso tecnicismo, visto che non vi è nel codice civile la definizione di norma imperativa, né vi sono norme imperative in più sensi (oltre che ai sensi del codice civile), si vuole evidentemente statuire che le parti non possono convenzionalmente derogare il criterio di liquidazione del danno previsto dalla norma. Può cogliersi pertanto un interesse di carattere generale, quello appunto sotteso ad una norma imperativa, ad impedire sia una determinazione convenzionale in pejus che andrebbe a discapito del paziente è più in generale della tutela del diritto alla salute, sia in mejus, che contrasterebbe l’esigenza di calmierare i risarcimenti e prima ancora i premi assicurativi.

Il giudizio civile

L’art. 8 della legge 24/2017 introduce, per chi intenda promuovere un’azione giudiziaria in sede civile relativa a una controversia di risarcimento del danno derivante da responsabilità sanitaria, una condizione di procedibilità: preliminarmente si deve proporre il ricorso ai sensi dell’art. 696-bis c.p.c. davanti al Giudice competente, essendo peraltro la procedura ivi prevista espressamente dettata per determinare il credito derivante dalla mancata o inesatta esecuzione di obbligazioni contrattuali o da fatto illecito, in tutte quelle situazioni nelle quali evidentemente è richiesto per tale determinazione l’ausilio di un tecnico. L’art. 696-bis c.p.c. prevede infatti la nomina di un consulente tecnico che compia tale determinazione; la norma ha inoltre una finalità conciliativa, perché ipotizza che il consulente compia, prima del deposito della relazione conclusiva, il tentativo di provocare una transazione.

Il comma 4 del medesimo articolo specifica che la partecipazione al procedimento di consulenza tecnica preventiva è obbligatoria per tutte le parti, comprese le imprese di assicurazione. La conseguenza della mancata partecipazione è rilevante: infatti il Giudice, “con il provvedimento che definisce il giudizio, condanna le parti che non hanno partecipato al pagamento delle spese di consulenza e di lite, indipendentemente dall’esito del giudizio, oltre che ad una pena pecuniaria, determinata equitativamente, in favore della parte che è comparsa alla conciliazione”.

Nell’ambito poi del procedimento di consulenza tecnica preventiva le imprese di assicurazione devono formulare l’offerta di risarcimento del danno oppure comunicare i motivi per cui ritengono di non proporla; in tale seconda ipotesi, in caso di esito favorevole per il danneggiato, il Giudice trasmette copia della sentenza all’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni (IVASS) per gli adempimenti di propria competenza.

In alternativa il citato art. 8 prevede, sempre quale condizione di procedibilità, il procedimento di mediazione previsto dall’art. 5, comma 1 del d. lgs. 4 marzo 2010, n. 28, mentre è esclusa l’applicazione dell’art. 3 del decreto legge 12 settembre 2014, n. 132, convertito con modificazioni dalla legge 10 novembre 2014, n. 162 e relativo all’obbligo di stipula di una convenzione di negoziazione assistita prima di esercitare un’azione in giudizio relativa al pagamento di somme fino ad € 50.000,00.

A differenza che per la consulenza tecnica preventiva, per la mediazione obbligatoria non sono previste nella legge 24/2017 conseguenze per la mancata partecipazione ad essa. Si può desumere perciò l’applicabilità dell’art. 8, comma 4-bis del citato decreto legge, a mente del quale “dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione, il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell’articolo 116, secondo comma, del codice di procedura civile. Il giudice condanna la parte costituita che, nei casi previsti dall’articolo 5, non ha partecipato al procedimento senza giustificato motivo, al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio”.

L’improcedibilità derivante dal mancato esperimento di uno dei due procedimenti sopra indicati può essere eccepita dal convenuto o rilevata d’ufficio dal Giudice, ma non oltre la prima udienza, in conformità a quanto già stabilito sia per la mediazione obbligatoria, sia per la convenzione di negoziazione assistita. Lo scopo è dunque sempre quello di evitare che mezzi aventi la finalità di risolvere più celermente le controversie sortiscano l’effetto contrario, come accadrebbe se li si dovesse utilizzare dopo che si è già svolto in ipotesi un intero grado di giudizio.

L’art. 15 sancisce poi, al fine di consentire che l’accertamento della responsabilità venga condotto da soggetti altamente qualificati ratione materie, che nei procedimenti civili e penali l’autorità giudiziaria affidi l’espletamento della consulenza tecnica e della perizia ad un medico specializzato in medicina legale e ad uno o più specialisti nella disciplina che abbiano specifica e pratica conoscenza di quanto oggetto del procedimento, avendo cura che i soggetti da nominare non siano in posizione di conflitto di interessi nello specifico procedimento o in altri connessi.

L’azione di rivalsa e di responsabilità amministrativa

L’art. 9 della legge 24/2017 disciplina l’azione di rivalsa e quella di responsabilità amministrativa.

La prima è promossa dalla struttura sanitaria o sociosanitaria contro l’esercente la professione sanitaria per il ristoro di quanto pagato al paziente in caso si responsabilità medica. È prevista pure, dall’art. 12, comma 3 della legge 24/2017, la rivalsa dell’impresa di assicurazione verso l’assicurato entro i limiti, non derogabili contrattualmente, che saranno stabiliti dal decreto ministeriale menzionato nell’articolo 10, comma 6 della legge in commento.

L’art. 9 prevede con riguardo alla rivalsa che l’azione nei confronti dell’esercente la professione sanitaria può essere esercitata solo nei casi di dolo e colpa grave e a condizione che l’esercente sia stato parte del giudizio o della procedura stragiudiziale di risarcimento del danno. Inoltre l’azione deve essere esercitata solo dopo l’adempimento dell’obbligo risarcitorio compiuto in base ad un titolo giudiziale o stragiudiziale, e a pena di decadenza entro un anno dall’avvenuto pagamento.

Per assicurare la partecipazione dell’interessato alla procedura da cui scaturisce il debito da rivalsa, l’art. 13 della legge 24/2017 pone l’obbligo delle strutture sanitarie e sociosanitarie e delle imprese di assicurazione di comunicare all’esercente la professione sanitaria  (mediante posta elettronica certificata o lettera raccomandata con avviso di ricevimento contenente copia dell’atto introduttivo del giudizio) l’instaurazione del giudizio promosso nei loro confronti dal danneggiato, entro dieci giorni dalla ricezione della notifica dell’atto introduttivo. Analoga disposizione vale per l’avvio di trattative stragiudiziali con il danneggiato, che deve pure essere comunicata entro dieci giorni all’interessato, con l’invito a prendervi parte. Il mancato, puntuale rispetto di tali oneri determina l’inammissibilità delle azioni di rivalsa o di responsabilità amministrativa.

Per quanto concerne l’azione di responsabilità amministrativa davanti alla Corte dei Conti, essa è fondata indifferentemente sulla responsabilità contrattuale o extracontrattuale del dipendente pubblico e richiede la dimostrazione del dolo o della colpa grave. È esercitata dal Pubblico Ministero presso la Corte dei Conti nel caso di accoglimento della domanda di risarcimento proposta dal danneggiato nei confronti della struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica, o dell’esercente la professione sanitaria. L’art. 9 della legge 24/2017 impone di valutare le situazioni di fatto di particolare difficoltà, anche di natura organizzativa, della struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica, in cui l’esercente la professione sanitaria ha operato.

Sia in sede di rivalsa (stante il richiamo all’art. 1916, comma 1 c.c.), sia in sede di responsabilità amministrativa, l’importo della condanna per singolo evento, in caso di colpa grave, non può superare una somma pari al valore maggiore della retribuzione lorda o del corrispettivo convenzionale conseguiti nell’anno di inizio della condotta causa dell’evento o nell’anno immediatamente precedente o successivo, moltiplicato per il triplo. La condanna incide anche sullo status di dipendente, nell’ambito delle strutture sanitarie o sociosanitarie pubbliche, dell’esercente la professione sanitaria, che per i tre anni successivi al passaggio in giudicato della decisione di accoglimento della domanda di risarcimento proposta dal danneggiato non può essere preposto ad incarichi professionali superiori rispetto a quelli ricoperti e il giudicato costituisce oggetto di specifica valutazione da parte dei commissari nei pubblici concorsi per incarichi superiori.

L’assicurazione contro il rischio della responsabilità medica

L’art. 10 della legge 24/2017 impone alle strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private l’obbligo di assicurarsi o di munirsi di altre “analoghe misure” per la responsabilità civile verso terzi (anche per prestazioni sanitarie svolte in regime di libera professione intramuraria ovvero in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale nonché attraverso la telemedicina) e per la responsabilità civile verso prestatori d’opera, ai sensi dell’art. 27, comma 1-bis del decreto legge 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114, compresi i danni cagionati dal personale a qualunque titolo operante presso le strutture sanitarie o sociosanitarie pubbliche e private, compresi coloro che svolgono attività di formazione, aggiornamento nonché di sperimentazione e di ricerca clinica.

L’obbligo assicurativo riguarda anche la responsabilità extracontrattuale degli esercenti la professione sanitaria, salva la rivalsa nei loro confronti disciplinata dall’art. 9 della legge 24/2017. Non si applica invece agli esercenti la professione sanitaria che svolgano la loro attività al di fuori di una delle strutture sopra menzionate o che prestino la loro opera all’interno delle stesse in regime libero-professionale, o che si avvalgano delle stesse nell’adempimento dell’obbligazione contrattuale assunta direttamente con il paziente.

Oltre a ciò, anche per assicurare il buon esito delle azioni di rivalsa dell’assicurazione e di responsabilità amministrativa, ciascun esercente la professione sanitaria operante a qualunque titolo in strutture sanitarie o sociosanitarie pubbliche o private provvede alla stipula, con oneri a proprio carico, di un’adeguata polizza di assicurazione per colpa grave.

Della stipula del contratto idoneo a creare la copertura assicurativa le strutture sopra menzionate devono dare pubblicità attraverso il proprio sito internet, indicando l’impresa che presta la copertura assicurativa e fornendo i dettagli della stessa (cioè indicando per esteso i contratti, le clausole assicurative ovvero le altre analoghe misure che determinano la copertura assicurativa).

Un successivo decreto a cura del Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro della salute è chiamato a definire i criteri e le modalità per lo svolgimento delle funzioni di vigilanza e controllo esercitate dall’IVASS sulle imprese di assicurazione che intendano stipulare polizze di cui sopra, con le strutture di cui al comma 1 e con gli esercenti la professione sanitaria. Dovranno pure essere definiti, con il coinvolgimento anche di enti territoriali e di associazioni rappresentative delle parti coinvolte, i requisiti minimi delle polizze assicurative per le strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private e per gli esercenti le professioni sanitarie, prevedendo l’individuazione di classi di rischio a cui far corrispondere massimali differenziati, i requisiti minimi di garanzia e le condizioni generali di operatività delle altre analoghe misure ed altresì le regole per il trasferimento del rischio nel caso di subentro contrattuale di un’impresa di assicurazione.

Contro il rischio che clausole claims made impediscano, in caso di stipula negli anni di contratti assicurazione con imprese diverse, la copertura assicurativa per fatti accaduti nel passato e denunciati nella vigenza del nuovo contratto, l’art. 11 della legge 24/2017 prevede che la garanzia assicurativa deve mantenere un’operatività temporale anche per gli eventi accaduti nei dieci anni antecedenti la conclusione del contratto assicurativo, purché denunciati all’impresa di assicurazione durante la vigenza temporale della polizza.

È scongiurato anche il rischio che, cessata definitivamente l’attività professionale per qualsiasi causa, l’esercente la professione sanitaria ometta di mantenere la copertura assicurativa, col rischio di trovarsene privo in caso di successiva denuncia di sinistro. L’art. 11 della legge 24/2017 prevede infatti che nel contratto di assicurazione deve essere previsto un periodo di ultrattività della copertura per le richieste di risarcimento presentate per la prima volta entro i dieci anni successivi e riferite a fatti generatori della responsabilità verificatisi nel periodo di efficacia della polizza, incluso il periodo di retroattività della copertura. Questa ultrattività è estesa agli eredi e non è assoggettabile alla clausola di disdetta.

Infine l’art. 12 della legge 24/2017 stabilisce che il soggetto danneggiato ha diritto di agire direttamente, entro i limiti delle somme per le quali è stato stipulato il contratto di assicurazione, nei confronti dell’impresa di assicurazione che presta la copertura assicurativa alle strutture sanitarie o sociosanitarie pubbliche o private e all’esercente la professione sanitaria. In tal caso non gli sono opponibili, per l’intero massimale di polizza, eccezioni derivanti dal contratto diverse da quelle stabilite dal decreto ministeriale sopra menzionato con cui saranno indicati i requisiti minimi delle polizze assicurative per le strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private e per gli esercenti le professioni sanitarie.

Nel giudizio promosso contro l’impresa di assicurazione, la struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata o l’esercente la professione sanitaria, se il giudizio è promosso contro quest’ultimo, sono litisconsorti necessari. Tali soggetti hanno diritto di accesso alla documentazione della struttura relativa ai fatti dedotti in ogni fase della trattazione del sinistro.

L’azione diretta del danneggiato nei confronti dell’impresa di assicurazione è soggetta al termine di prescrizione pari a quello dell’azione verso la struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata o l’esercente la professione sanitaria.

Si noti però che le disposizioni sopra richiamate si applicheranno a decorrere dalla data di entrata in vigore del citato decreto ministeriale per la determinazione dei requisiti minimi delle polizze assicurative per le strutture sanitarie e sociosanitarie e per gli esercenti le professioni sanitarie.

La responsabilità penale del medico

La legge 24/2017 tratta anche la responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria per omicidio colposo o lesioni, introducendo, all’art. 6, il nuovo art. 590-sexies c.p., rubricato “responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario”. Vi si stabilisce che se i reati sopra indicati sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene previste per tali reati dagli artt. 589 e 590 c.p.; ma “qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico – assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto”.

In precedenza, l’art. 3, comma 1 della legge 189/2012 aveva previsto che “l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve”.

Dunque la legge 24/2017 non distingue fra colpa grave e colpa lieve; inoltre introduce una causa di esclusione della punibilità per l’esercente la professione sanitaria che sia incorso nella commissione del delitto di omicidio colposo o di lesioni personali colpose, la quale opera solo per il caso di imperizia e pertanto non per le altre ipotesi di colpa quali la negligenza e l’imprudenza.

Si segnala a tale riguardo che è insorto un contrasto nella giurisprudenza di legittimità sulla individuazione della disciplina da applicare ora in quanto più favorevole all’imputato, fra la nuova sopra descritta e quella di cui alla legge Balduzzi, in vigore al momento della commissione del presunto reato.

Infatti la sentenza della Sezione Quarta Penale della Corte di Cassazione del 7 giugno 2017, n. 28187, dopo avere ribadito la critica rivolta dalla dottrina alla nuova formulazione della norma laddove la stessa ipotizza una contraddittoria presenza nella medesima fattispecie di un evento che sia imputabile per imperizia (“qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia”) e ciò nonostante siano state “rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida” ecc., osserva a tale riguardo: “la nuova disciplina non trova applicazione negli ambiti che, per qualunque ragione, non siano governati da linee guida; e neppure nelle situazioni concrete nelle quali tali raccomandazioni debbano essere radicalmente disattese per via delle peculiarità della condizione del paziente o per qualunque altra ragione imposta da esigenze scientificamente qualificate. Inoltre, il novum non opera in relazione alle condotte che, sebbene poste in essere nell’ambito di approccio terapeutico regolato da linee guida pertinenti ed appropriate, non risultino per nulla disciplinate in quel contesto regolativo. (…) Occorre pure tener conto dell’abrogazione dell’art. 3 comma 1, d.l. 13 settembre 2012, n. 158, convertito, con modificazioni dalla legge 8 novembre 2012, n. 189, che aveva operato la nota distinzione tra colpa lieve e colpa grave. Questa Corte (…), aveva interpretato tale riforma nel senso più ampiamente aderente al principio di colpevolezza; ritenendo che, nei contesti regolati da linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, si fosse verificata la decriminalizzazione delle condotte connotate da colpa lieve. In conseguenza, si è ravvisato che, sempre nell’ambito indicato, residuasse la responsabilità colpevole solo per colpa grave: interpretazione aderente alle movenze della riflessione dottrinale e consonante con l’orientamento di altre normative nazionali. L’abrogazione della legge del 2012 implica la reviviscenza, sotto tale riguardo, della previgente, più severa normativa che, per l’appunto, non consentiva distinzioni connesse al grado della colpa. Infatti la novella del 2017 non contiene alcun riferimento alla gravità della colpa. Naturalmente, ai sensi dell’art. 2 cod. pen., il nuovo regime si applica solo ai fatti commessi in epoca successiva alla riforma. Per i fatti anteriori, come quello in esame, sempre in applicazione dell’art. 2 cod. pen., può trovare applicazione, invece, quando pertinente, la ridetta normativa del 2012, che appare più favorevole con riguardo alla limitazione della responsabilità ai soli casi di colpa grave”.

In seguito la stessa Sezione Quarta Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza 19 ottobre 2017, n. 50078, ha invece compiuto una valutazione opposta: “il legislatore, innovando rispetto alla legge Balduzzi, non attribuisce più̀ alcun rilievo al grado della colpa, così che, nella prospettiva del novum normativo, alla colpa grave non potrebbe più̀ attribuirsi un differente rilievo rispetto alla colpa lieve, essendo entrambe ricomprese nell’ambito di operatività̀ della causa di non punibilità̀; sotto l’altro concorrente profilo, giova ribadire che con il novum normativo si è esplicitamente inteso favorire la posizione del medico, riducendo gli spazi per la sua possibile responsabilità̀ penale, ferma restando la responsabilità̀ civile. La nuova legge, in sostanza, cerca di proseguire in un percorso di attenuazione del giudizio sulla colpa medica, introducendo così una causa di esclusione della punibilità̀ per la sola imperizia la cui operatività̀ è subordinata alla condizione che dall’esercente la professione sanitaria siano state rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge, ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico assistenziali e che dette raccomandazioni risultino adeguate alla specificità̀ del caso concreto. Tale risultato è stato perseguito dal legislatore [in tal senso la lettera della norma non ammette equivoci] costruendo una causa di non punibilità̀, come tale collocata al di fuori dell’area di operatività̀ del principio di colpevolezza: la rinuncia alla pena nei confronti del medico si giustifica nell’ottica di una scelta del legislatore di non mortificare l’iniziativa del professionista con il timore di ingiuste rappresaglie mandandolo esente da punizione per una mera valutazione di opportunità̀ politico criminale, al fine di restituire al medico una serenità̀ operativa così da prevenire il fenomeno della cd. medicina difensiva. In questa prospettiva l’unica ipotesi di permanente rilevanza penale della imperizia sanitaria può̀ essere individuata nell’assecondamento di linee guida che siano inadeguate alla peculiarità̀ del caso concreto; mentre non vi sono dubbi sulla non punibilità̀ del medico che seguendo linee guida adeguate e pertinenti pur tuttavia sia incorso in una «imperita» applicazione di queste [con l’ovvia precisazione che tale imperizia non deve essersi verificata nel momento della scelta della linea guida – giacchè non potrebbe dirsi in tal caso di essersi in presenza della linea guida adeguata al caso di specie, bensì nella fase «esecutiva» dell’applicazione]. (…) Alla luce delle considerazioni svolte deve affermarsi il seguente principio di diritto: «Il secondo comma dell’art. 590-sexies cod. pen. articolo introdotto dalla legge 8 marzo 2017, n. 24 (c.d. legge Gelli-Bianco), prevede una causa di non punibilità̀ dell’esercente la professione sanitaria operante, ricorrendo le condizioni previste dalla disposizione normativa (rispetto delle linee guida o, in mancanza, delle buone pratiche clinico-assistenziali, adeguate alla specificità̀ del caso), nel solo caso di imperizia, indipendentemente dal grado della colpa, essendo compatibile il rispetto delle linee guide e delle buone pratiche con la condotta imperita nell’applicazione delle stesse»”.

Su segnalazione del Presidente della Quarta Sezione Penale, la questione è stata rimessa alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

Luca Nanni
Avvocato – Professore Ordinario di Diritto Privato presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Genova

 

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