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Le discriminazioni sul posto di lavoro e il risarcimento del danno – Luci e ombre della prassi giudiziale

Premessa. In tema di discriminazione sul posto di lavoro il legislatore ha prestato particolare attenzione a partire dall’emanazione della L. 300/1970, meglio nota come Statuto dei Lavoratori. La decisione di creare un numerus claususdi fattispecie alle quali ricondurre la valutazione di condotte più o meno discriminatorie aveva un duplice scopo: tipizzare e stigmatizzare eventuali abusi da parte del datore di lavoro nei confronti del lavoratore e circoscrivere l’area di intervento del giudice nel caso di denuncia da parte del sottoposto. L’evoluzione delle fattispecie in materia di discriminazione ha subito una forte accelerazione nel corso degli ultimi vent’anni, complice l’evoluzione dei costumi e perfino della tecnologia. Tale processo di trasformazione ha chiaramente messo in evidenza la portata limitante del dettato normativo di cui allo Statuto dei Lavoratori evidenziando la scarsa duttilità del sistema nel riconoscere nuove forme di lesione della dignità del lavoratore in sede giudiziaria.

In quest’ottica il Comitato Pari Opportunità dell’Ordine degli Avvocati di Bologna ha ritenuto di dover promuovere una serie di incontri volti alla formazione e alla sensibilizzazione degli operatori del diritto al fine di individuare una strategia comune ed integrata di prevenzione e di contrasto ai fenomeni discriminatori emergenti.

La normativa antidiscriminatoria. Con l’introduzione dello Statuto dei Lavoratori il legislatore ha inteso definire atti discriminatori quei patti o atti diretti a: “a) subordinare l’occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad una associazione sindacale ovvero cessi di farne parte; b) licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero.”[1] Un primo intervento di ampliamento della casistica in materia fu operato a distanza di sette anni introducendo all’ultimo comma dell’art. 15 l. n. 300/70 l’inciso: “Le disposizioni di cui al comma precedente si applicano altresì ai patti o atti diretti a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso,”[2] con l’intento sancire la parità di trattamento tra uomini e donne nel mondo del lavoro. L’ultimo intervento legislativo di modifica dello Statuto dei Lavoratori in materia di atti discriminatori è stato effettuato a mezzo del D. Lgs. 9 Luglio 2003, n. 216 il quale amplia la casistica anche ai patti o atti diretti alla discriminazione di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali.[3]

Nel panorama europeo la lotta alla discriminazione in ambito lavorativo ha conosciuto una lunga gestazione sia nelle fonti primarie dell’Unione Europea (prima ancora Comunità) sia negli atti derivati. Già a partire dal Trattato di Roma venne introdotto all’art. 119 il principio di parità della retribuzione fra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro.[4] Ad esso si susseguirono ben nove direttive[5], un numero di raccomandazioni e di risoluzioni del Parlamento europeo, quattro programmi d’azione[6] e un’ampia giurisprudenza della Corte di Giustizia.[7] Con la sottoscrizione del Tratto di Amsterdam[8] si perfezionò il campo di applicazione della tutela antidiscriminatoria evidenziando la necessità di combattere qualsiasi tipo di azione avente ad oggetto la lesione della dignità basasti su sesso, razza, etnia, religione o credo, disabilità, età o orientamento sessuale. Gli articoli 2, 3 e 6 A accordarono una nuova competenza espressa alle istituzioni affinché si creassero le condizioni necessarie a perseguire una lotta contro qualsiasi forma di discriminazione basata sul sesso. L’unico limite a tale competenza era dato dal voto all’unanimità del Consiglio e dalla consultazione esclusiva del Parlamento europeo. L’inserimento nel nuovo trattato dell’Accordo sulla politica sociale agli articoli 117, 118 e 119 costituiva di fatto un’ulteriore dimostrazione del reale balzo in avanti compiuto dalla politica in materia di non discriminazione e di parità tra gli uomini e le donne, tanto nella sua attuazione, facendosi riferimento al procedimento di codecisione, quanto nel suo stesso contenuto, ammettendo, per la prima volta, l’esistenza di una possibile discriminazione positiva.

A partire dal nuovo millennio gli interventi legislativi europei si sono concentrati, oltre che sulla definizione di un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, sulla definizione di misure atte a garantire un indennizzo o una riparazione reale ed effettiva del soggetto leso: il legislatore europeo ha inteso procedere all’armonizzazione delle varie discipline statali nell’assicurare il giusto ristoro in caso di evento discriminatorio, anche in un’ottica di deterrenza.[9]

Sulla scia di tale evoluzione normativa si è proceduto, in Italia, alla creazione di un codice delle pari opportunità tra uomo e donna[10] inteso a dare piena attuazione alle sollecitazione tanto interne (evoluzione della prassi giurisprudenziale) quanto esterne (direttive europee, risoluzioni, piani di azione, etc..). Di particolare rilievo risulta essere l’impianto definitorio delle fattispecie discriminanti, a partire dalla nuova formulazione delle molestie sessuali, contenute all’art. 26 del predetto codice: “Sono considerate come discriminazioni anche le molestie, ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile degradante, umiliante o offensivo. …omissis”. Tale impostazione intende ampliare quanto più possibile il novero di comportamenti sanzionabili pur nel rispetto di una cornice normativa che possa assicurare un quadro definitorio circostanziato. A ciò si deve aggiungere la previsione contenuta nell’art. 40 del medesimo codice, in termini di onere della prova, che introduce due pilastri fondamentali nell’impostazione dell’eventuale azione di condanna: da un lato, la possibilità di utilizzare elementi di fatto anche solamente desunti da opportune analisi sub species e dall’altro il generale principio di inversione dell’onere della prova (in capo, pertanto, al convenuto) nel dichiarare insussistente la discriminazione denunciata.

Su questo ultimo punto giova ricordare, inoltre, che dottrina e giurisprudenza sono oramai concordi nel ritenere che il solo elemento oggettivo che si fondi su presunzioni precise e concordanti sia elemento sufficiente per accertare e condannare una condotta discriminatoria, a nulla valendo l’inesistenza di un elemento soggettivo.[11]  A ciò si deve aggiungere che la discriminazione può essere considerata tale sia in forma diretta che in forma indiretta[12], purché portatrice di una situazione e/o trattamento di particolare svantaggio, indipendentemente dalla gravità e/o rilevanza.

Ad oggi, pertanto, il quadro normativo in materia di discriminazioni risulta essere assai variegato sia sotto il profilo delle fonti (di derivazione internazionale, europea e nazionale) che sotto il profilo della casistica, rendendo particolarmente difficile l’individuazione di una prassi alla quale gli operatori del diritto possano attingere senza dover incappare in processi di esegesi normativa e/o fattuale.

Caso oggetto di disamina. Al fine di valutare la concreta applicazione della normativa vigente in tema di discriminazione sul lavoro è opportuno esaminare alcuni casi avvenuti nel panorama domestico. Il primo fa riferimento a due hostess di età molto giovane selezionate sulla base di stringenti criteri estetici per un evento fieristico di richiamo internazionale. Il contratto di lavoro veniva offerto da una società sub appaltatrice la quale assumeva il personale necessario agli eventi facendosi carico di ogni onere e trattamento economico, oltre rimborso spese, rimanendo in capo alla società sponsor ufficiale dell’evento il solo dominio apparente. Dopo un breve periodo di lavoro perveniva, alle ragazze, una lettera di licenziamento per motivi ricollegabili al mancato svolgimento corretto delle mansioni come da istruzioni ricevute dalla coordinatrice nei giorni precedenti (es. non aver messo in fila per due, anziché per tre, i contenitori; non aver mantenuto la postazione indicata; etc..). Dopo un breve colloquio con il responsabile dell’organizzazione le ragazze venivano invitate a ritenersi dispensate da qualunque altro impegno nei confronti della società, essendo venuto meno il rapporto sinallagmatico tra datore di lavoro e lavoratore.

L’atto veniva immediatamente impugnato per illegittimità nel merito mentre una delle hostess procedeva a muovere specifica contestazione per condotta discriminatoria qualificabile come molestia sessuale ex art. 26 secondo comma, D. Lvo. n.198/2006. Tale condotto veniva descritta con minuzia dalla ricorrente la quale asseriva di aver ricevuto, in almeno due occasioni prima del licenziamento, avance da un responsabile della stessa società datrice di lavoro, peraltro mai ricambiate.

Tali addebiti venivano prontamente respinti dal datore di lavoro, in particolare con riguardo alle specifiche doglianze della lavoratrice in materia di discriminazione, ritenendosi estrane alle stesse e ritenendole generiche e prive di riscontro.

Il caso è stato affrontato in sede di conciliazione ex artt. 2113 c.c., 410  e 411 c.p.c., definendo in via transattiva un ristoro economico in termini complessivi di notevole entità. La strategia difensiva elaborata dalla ricorrente ha tenuto conto di alcune elementi essenziali nella definizione del caso: quadro probatorio scarso; difficoltà emotiva della ricorrente nel ripercorrere le tipologie di avance ricevute; particolare complessità nel stabilire un nesso causale tra il comportamento discriminatorio ed un congruo risarcimento economico. Più nel dettaglio si poneva all’attenzione del difensore la palese riluttanza della cliente nel voler notiziare gli operatori di quanto accaduto nello specifico, stante la particolare fragilità psicologica della ricorrente. Solo un attento e meticoloso lavoro di indagine coadiuvato da personale medico specializzato ha portato alla definizione dell’accaduto, pur rimanendo la difficoltà del reperimento di ulteriori indizi e/o prove (nel caso in esame vi era un solo sms inoltrato dal datore di lavoro alle ore 4.30 del mattino con scritto: “in che stanza alloggi!”. La ricorrente asseriva che tale comportamento si era già ripetuto nel tempo ma non aveva conservato tracce ulteriori al riguardo). Quanto alla parte resistente si poneva il problema di un possibile danno d’immagine di ampie proporzioni qualora il caso fosse stato pubblicizzato additando le società coinvolte quali responsabili, in via indiretta, di comportamenti discriminatori nei confronti di dipendenti.

Per tali motivi le parti hanno ritenuto di procedere speditamente alla definizione del caso in via meramente transattiva. Si deve ritenere, peraltro, che tale tipologia di procedura risulta essere di gran lunga la più caldeggiata in sede di discriminazione, stante la persistente difficoltà degli operatori nel poter perseguire la via del risarcimento del danno in via giudiziale come previsto dal combinato disposto degli artt. 26, 37 e 38 del D. Lvo 198/2006.

Un altro caso di particolare interessa è stato oggetto di una sentenza del Tribunale di Pistoia, sezione Lavoro[13]: due donne con contratto di lavoro a tempo determinato venivano ripetutamente fatte oggetto di molestie da parte del datore di lavoro. La prima riceveva una lettera di licenziamento a seguito delle rimostranze avanzate per le molestie subite mentre la seconda veniva costretta alle dimissioni volontarie. Ambo le lavoratrici procedevano all’impugnazione del licenziamento a mezzo di ricorso promosso anche grazie all’intervento della Consigliera per le Pari Opportunità, chiedendo il risarcimento del danno non patrimoniale e l’applicazione di un piano di rimozione delle discriminazioni[14] eventualmente accertate in sede giudiziale.

Il Giudice, accertata la sussistenza degli elementi integranti un comportamento discriminatorio, annullava il licenziamento e riconosceva alle lavoratrici il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale per la “condizione di sofferenza immediatamente apprezzabile in dipendenza della natura dei beni lesi e dalle caratteristiche della violazione”. Oltre al ristoro del danno patito dalle ricorrenti il Giudice stabiliva un risarcimento nei confronti della Consigliera per le Pari Opportunità e la comunicazione della pronuncia alle altre lavoratrice non ricorrenti affinché fossero edotte della possibilità di esperire un eventuale ricorso.

Quanto ad altre tipologie di discriminazione giova meritano attenzione due pronunce del Tribunale di Bologna, sezione lavoro[15]: la prima riguarda un operaio edile con anzianità di servizio di trent’anni licenziato per inidoneità fisica alla mansione in ragione di una intervenuta limitazione relativa al sollevamento di pesi inferiori a 12 kg certificata dal medico competente. Il datore di lavoro riteneva di non poter adibire il sottoposto ad altra mansione lavorativa presso la propria azienda dovendo procedere, pertanto, all’interruzione del rapporto di lavoro. Il Giudice ha ritenuto illegittimo l’atto decretandone la nullità e disponendo l’immediata reintegrazione sul posto di lavoro in quanto il licenziamento risultava essere discriminatorio per ragioni di handicap posto che, dalla documentazione medica prodotta, la malattia professionale sofferta dal ricorrente era già stata riconosciuta dall’Inail quale invalidante.

Nel secondo caso, invece, la lavoratrice oggetto di licenziamento aveva subito un demansionamento con contestuale riduzione dell’orario di lavoro , dopo aver fruito del periodo di congedo per maternità. A seguito del ricorso proposto ex art. 38 D. Lgs. N.196/2006 il Giudice statuiva l’esistenza di una condotta discriminatoria sulla base delle presunzioni allegate in fase di ricorso, non riuscendo la società convenuta a dimostrare l’infondatezza dei fatti e degli atti posti a fondamento della pretesa risarcitoria della ricorrente.

Conclusioni. Alla luce dei casi sopra esposti si deve evidenziare come nell’ambito delle discriminazioni sul lavoro l’esperienza sul campo degli operatori del diritto, a partire dalla casistica giurisprudenziale, rappresenti quanto mai un panorama eterogeneo non facilmente modificabile in un unico paradigma. Ogni evento/caso rappresenta un unicum rappresentando una notevole sfida in termini fattuali e processuali per i difensori. La sensibilità degli argomenti trattati associata alla necessaria tutela della dignità del lavoratore e della sua privacy rappresentano, spesso, uno scoglio insormontabile nella corretta rappresentazione dei fatti accaduti, inficiandone la relativa allegazione.

Per tali motivi è auspicabile una maggior sinergia tra gli operatori del diritto basata su tre principali direttive: l’istituzione di protocolli volti alla prevenzione delle condotte discriminanti in ambito lavorativo; maggiore sensibilizzazione dei soggetti maggiormente coinvolti ed esposti, con particolare attenzione alla formazione specialistica; l’intensificazione dell’attività in sede giudiziale al fine di sedimentare le necessarie interpretazioni giuridiche del quadro di riferimento normativo.

Mario Turco

[1] Art. 15 L. 20 Maggio 1970 n. 300, Norme sulla tutela della libertà dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento.

[2] Art. 13 L. 9 Dicembre 1977 n. 903 Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro.

[3] Art. 4 D.Lgs. 9 Luglio 2003 n.216.

[4] Art. 119 del Trattato che istituisce la Comunità Economica Europea: “Ciascuno Stato membro assicura durante la prima tappa, e, in seguito mantiene, l’applicazione del principio della parità delle retribuzioni fra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro. Per retribuzione deve essere inteso, ai sensi del recente articolo, il salario o trattamento normale di base o minimo e tutti gli altri vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell’impiego di quest’ultimo. La parità di retribuzione, senza discriminazione fondata sul sesso, implica: a)che la retribuzione accordata per uno stesso lavoro pagato a cottimo sia fissata in base a una stessa unità di misura; b) che la retribuzione corrisposta per un lavoro pagato a tempo sia uguale per un posto di lavoro uguale.”

[5] Direttiva 75/117/CEE del 10 Febbraio 1975 per il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative all’applicazione del principio della parità delle retribuzioni tra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile; Direttiva 76/307/CEE del 9 Febbraio 1976 relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro; Direttiva 79/7/CEE del 19 Dicembre 1978 relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale; Direttiva 86/378/CEE del 24 Luglio 1986 relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento tra gli uomini e le donne nel settore dei regimi professionali di sicurezza sociale modificata dalla direttiva 96/97/CE del Consiglio del 20 Dicembre 1996; Direttiva 86/613/CEE dell’11 Dicembre 1986 relativa all’applicazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne che esercitano un’attività autonoma, ivi comprese le attività nel settore agricolo, e relativa altresì alla tutela della maternità; Direttiva 92/85/CEE del 19 Ottobre 1992 concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento; Direttiva del Consiglio relativa ai congedi parentali e ai congedi per motivi familiari divenuta la direttiva 96/34/CE del Consiglio del 3 Giugno 1996 concernente l’accordo quadro sule congedo parentale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES; Direttiva 97/80/CE del Consiglio del 15 Dicembre 1997 riguardante l’onere della prova nei casi di discriminazione basata sul sesso; Direttiva 97/81/CE del Consiglio del 15 Dicembre 1997 relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES.

[6] Particolare importanza ha assunto il Quarto programma di azione comunitaria a medio termine per le pari opportunità per le donne e gli uomini adottato con decisione del Consiglio il 22 Dicembre 1995, GU L 335, pag. 37.

[7] A titolo esemplificativo: Gabrielle Defrenne contro Sabena, sentenza 22 Aprile 1976, C-43/75; Maria Kowalska contro Freie und Hansestadt Hamburg, sentenza 17 Giugno 1990, C-33/89; Helga Nimz contro Freie un Hansestadt Hamburg, sentenza 7 Febbraio 1991, C-184/89; Coloro Pension Trustees Lts contro James Richard Russell. Daniel Mangham, Gerald robert Parker, Robert Shapr, Joan Fuller, Judith Anna Broughton e Coloroll Group Plc, sentenza 28 Settembre 1994, C-200/91; Gertruida Catharina Fisscher contro Voorhuis Hengelo BV e Stichting Bedrijfspensionenfonds voor de Detailhandel, sentenza 28 Settembre 1994, C-128/93; Francina Johanna Maria Dietz conto Stichting Thuiszorg Rotterdam, sentenza 24 Ottobre 1996, C-453/93.

[8] Entrato in vigore il 1° Maggio 1999.

[9] In tal senso si vedano le Direttive 78/2000/CE e 54/2006/CE; quest’ultima all’art. 18 cita espressamente: “indennizzo o riparazione reali ed effettivi, in modo tale da essere dissuasivi e proporzionati al danno subito”.

[10] D. Lgs. 11 Aprile 2006 n.198, Codice delle Pari Opportunità tra Uomo e Donna. Per un’ulteriore approfondimento si veda la L. 10 Aprile 1991 n. 125.

[11] Chez Razpredelenie Bulgaria AD contro Komisia za zashtita ot diskriminatsia, 16 Luglio 2015, C-83/14: si attua la Direttiva 43/2000 in tema di discriminazione su base etnica e trova applicazione anche a tutela dei soggetti non appartenenti ad una determinata etnia, in virtù del solo pregiudizio subito. A tal fine si deve rimuovere ogni discriminazione, diretta o indiretta, seppur non contatta da una particolare gravità/rilevanza.

[12] Art. 2 D.Lgs. 9 Luglio 2003, n.216: “a) discriminazione diretta quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga; b) discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o una comportamento apparentemente neutri possono mettere le perone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone”.

[13] Tribunale di Pistoia, Sezione Lavoro, Sentenza n.177 del 2012, depositata in data 8 Settembre 2012.

[14] Art. 4 D.Lgs. 9 Luglio 2003, n.216: “Con il provvedimento che accoglie il ricorso il giudice, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale, ordina la cessazione del comportamento, della condotta o dell’atto discriminatorio, ove ancora sussistente, nonché la rimozione degli effetti. Al fine di impedirne la ripetizione, il giudice può ordinare, entro il termine fissato nel provvedimento, un piano di rimozione delle discriminazioni accertate.”

[15] Sentenza del Tribunale di Bologna, Sezione Lavoro del 30 Ottobre 2013; Sentenza del Tribunale di Bologna, Sezione Lavoro del 18 Luglio 2011.

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Mario Turco