Tra il serio e il faceto

Il diritto civile e la realtà ovvero la memoria prodigiosa

In un racconto perfetto, Borges descrive le tragiche conseguenze cui va incontro un suo personaggio, Funes, dotato di una memoria straordinaria e patologica che gli permette di ricordare persino il numero di gocce che un tal giorno caddero sulle foglie di una pianta di cui rammenta tutte le differenti sfumature di colore.

Lo stesso accade ai testimoni nel processo civile.

Domanda, il giudice: è vero che alle 17.35 del 18 giugno del 2007, l’autovettura guidata da Tizio, ad alta velocità, si immise nel traffico, speronando l’auto della signora Caia?

È successo proprio così, risponde il teste, con voce flautata e senza alcuna esitazione.

Come fa a ricordare un episodio successo dieci anni prima? Sibila, visibilmente irritato, uno degli avvocati.

La domanda è fuori contesto e non può essere ammessa, censura il giudice inflessibile.

Ma la risposta resa dal testimone vale come prova ed anche su di essa potrebbe basarsi la futura sentenza.

Orbene, il recupero di una memoria prodigiosa è uno dei tanti misteri del giudizio civile, al pari di chi, fisicamente morto, continua ad essere processualmente vivo.

Ed è anche la dimostrazione della notevole differenza che si può cogliere tra il processo e la realtà che ci circonda, essendo noto che il primo non sempre combacia con la seconda. A volte la richiama, a volte la modifica, a volte se ne discosta in modo brutale.

Non ci si riferisce soltanto agli errori giudiziari, imputabili ai vari protagonisti del gioco processuale, ma al fatto che il giudizio, come ogni invenzione dell’uomo, ha regole per nulla eterne, per nulla immutabili e che a volte stridono con la logica elementare e comune, quella che fa sbottare i clienti: ma come? avevo ragione ed ho invece perso!. Che è simile al grido di dolore degli studenti che lamentano l’ingiustizia di essere stati respinti, pur dichiarando di aver saputo alla perfezione la materia d’esame: il professore mi ha chiesto proprio tutto, ho risposto a tutto, ma in modo inspiegabile mi ha bocciato.

Nel vasto mondo del diritto civile, le differenze tra la realtà e le norme sono più evidenti in alcuni settori piuttosto che in altri.

Dei sei libri di cui è composto il codice, il secondo è seriamente tragico, trattando delle successioni a causa di morte: viene stabilito a chi debbano essere assegnate le porcellane della nonna e si indicano le ragioni per impugnare il testamento che si presume falso, perché il defunto, consapevole di essere stato mal sopportato in vita da alcuni parenti, si è vendicato, ignorandoli nella sue ultime volontà.

Il terzo libro è pieno di ragnatele: si occupa dei beni, della proprietà e di quei diritti reali, definiti, con involontaria ironia, “minori” e che solo evocandoli, suscitano sbadigli irrefrenabili: sfido chiunque a leggere la disciplina dell’enfiteusi senza cadere in un profondo torpore. Certo, c’è il possesso, ma anche lì il terreno è scivoloso e lontano dal senso comune: posso diventare proprietario di un bene anche se l’ho acquistato da colui che, invece, di quel bene non ne era affatto il proprietario.

Il quarto libro è, probabilmente, il più articolato e il più strutturato dal punto di vista logico: dominano le principesche obbligazioni ed il contratto, altro personaggio nobile e altezzoso. In questo libro troviamo anche la responsabilità civile che ha radici antichissime ed è una materia in continua evoluzione. E poi, i titoli di credito considerati opera di orologeria.

Nel quinto libro ci si immerge nell’impresa, nelle società, nella concorrenza, lì dove si presume che circoli la vera ricchezza, ed è perciò un settore naturalmente molto ambito dagli avvocati.

Il sesto libro è, invece, mite, ricorda un ragazzo per bene e giudizioso: disciplina le garanzie e soprattutto scandisce il tempo nel quale tutto dev’essere compiuto e scaduto il quale, davvero, non importa più chi abbia torto o ragione.

Ho lasciato il primo libro per ultimo e per un buon motivo: lì c’è sangue vero, lì quando si litiga si usa l’ascia. È la parte del codice dedicata, in larghissima misura, alla famiglia, nelle sue varie articolazioni: matrimonio con paggi, confetti e violini, unioni con persone che entrambe si chiamo Mario, con o senza figli (questi un tempo divisi in penose categorie: naturali, adottivi, legittimi, illegittimi, incestuosi e non riconoscibili). Breve parentesi: in sede di esame di diritto privato, alla domanda cosa sia il matrimonio, il candidato, senza perplessità, ha affermato: è un contratto fra due o più persone. Richiesto di indicare chi fosse la terza persona del “contratto”, lo stesso, sempre senza tentennare, ha aggiunto: lasci stare, sono cose delicate.

Ritornando al primo libro, di esso fanno parte la separazione e il divorzio (leggi speciali, in realtà, ma tessuto connettivo del diritto di famiglia). È noto, per esperienza personale o di amici, che la separazione che non si riesca a risolvere in modo consensuale, è il luogo dove si sviluppano risse infinite, dove vengono alla luce rancori covati per anni, dove si esibiscono torti mai digeriti, dove vengono sguainate offese che ancora sanguinano.

Ad un attento esame psicoanalitico, soltanto un’altra realtà è equiparabile per gli effetti dirompenti e per la carica emotiva alla separazione dei coniugi: l’assemblea di condominio che, con vera saggezza, è stata inserita nel libro dedicato ai beni. Aggiungerla al diritto di famiglia dev’essere apparso umanamente insostenibile.

Ma ad ogni libro del codice corrisponde un tipo di avvocato differente. Chi si dedica ai beni ed alle successioni è, in genere, corrucciato e pensoso, con un incarnato dal color di candela. Chi si occupa professionalmente di contratti e di società è, in genere, affettato e falsamente compiacente. Chi si dedica al diritto di famiglia ha di mira, in genere, l’altrui giugulare.

Infine, mi sono domandato perché faccio l’avvocato, considerando che il processo, a volte, non soddisfa nessuno o perché la decisione viene percepita e vissuta come ingiusta o perché il giudizio è troppo lento: informato di aver vinto la causa, un cliente era rimasto molto sorpreso non per la vittoria, ma perché si era completante dimenticato di aver ancora un giudizio pendente.

Insomma, la possibilità di incidere sulla realtà attraverso lo strumento processuale è davvero minima, anche se in ambito penale, immagino, sia molto diverso.

Allora, perché?

Perché molti anni fa ho vinto un processo, economicamente molto modesto, ma umanamente molto importante: si era riusciti dopo una lunga battaglia ad ottenere che una bambina di cinque anni venisse affidata soltanto alla mamma, sottraendola al padre, uomo, purtroppo, violento.

E la mia ricompensa è stata il disegno fatto dalla bambina sul retro della sentenza: un cuore e un grazie. A volte, diritto e realtà felicemente convivono.

avv. Filippo De Maria

Informazioni sull'autore

Filippo De Maria