Speciale referendum 2022

In attesa del referendum

Il Prof. Massimo Franzoni intervista il Prof. Andrea Morrone

 

A giugno saremo chiamati a votare per una serie di referendum. Abbiamo l’opportunità di parlarne con Andrea Morrone, professore ordinario di diritto costituzionale, presso l’Università di Bologna. Almeno in uno di questi si pone il problema del rilievo costituzionale, alludo a quello c.d. della separazione delle carriere fra magistrati inquirenti e magistrati giudicanti. Cosa ne pensi?

Il referendum sulla separazione delle carriere torna per la seconda volta al voto degli elettori, la prima fu nel 2000, quando la Corte costituzionale ammise al voto il relativo quesito con sent. n. 27/2000, ma non fu raggiunto il quorum. Questo nuovo quesito colpisce numerose disposizioni dei seguenti testi normativi: r.d. n. 12 del 1941; l. n. 1 del 1963; d.lgs. n. 26 del 2006; d.leg. n. 160 del 2006. Rispetto al precedente ha ad oggetto le leggi intervenute successivamente, ma mantiene il medesimo obbiettivo di impedire il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa.
C’è una anomalia, in entrambi i casi, che riguarda la denominazione del quesito, posta dall’ufficio centrale della cassazione, in collaborazione con il comitato promotore, essa si riferisce alla “separazione delle carriere”, mentre l’oggetto del referendum è la separazione delle funzioni.

A prescindere dal concreto rilevo, come impatta in termini costituzionali, mi era sembrato che la piena separazione si potesse ottenere soltanto con la modifica della costituzione, è vero?

La Costituzione prevede che “i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni”. Per operare una autentica “separazione delle carriere” tra PM e giudice, occorre quindi una revisione costituzionale. In passato, le proposte di riforma costituzionale avevano separato l’ufficio del pubblico ministero da quello del giudice, prevedendo due diversi organi di autogoverno per gli uni e per gli altri, anche per evitare l’assoggettamento del PM al potere esecutivo. La legislazione positiva e il referendum abrogativo operano nel contesto della Costituzione vigente, che prevede una unica carriera per tutti i magistrati, limitando la prima, o escludendo del tutto il secondo, la possibilità di passaggi dall’una all’altra funzione.

Ritieni che questo referendum possa offrire un risultato immediato e renda comunque necessario un intervento legislativo per potere rendere funzionale il quadro normativo che risulterà?

L’esito del referendum è auto-applicativo, quindi, non richiede nessun altro intervento, si limita a ridurre i passaggi da una funzione all’altra da 4 volte a 1 soltanto. Certo si tratta di valutare la reazione della magistratura e del parlamento a questa innovazione.

E la magistratura cosa ne pensa?

In generale la reazione dei magistrati dell’ANM è stata di netta chiusura nei confronti di tutti i sei quesiti. In particolare, nel caso della separazione delle carriere l’ostilità si giustifica in quanto il referendum viene percepito come un primo passo verso l’effettiva separazione delle carriere e la sottoposizione del PM al potere del governo.

Il costituzionalista cosa ne pensa?

Credo che la legislazione vigente rappresenti un punto di equilibrio e il referendum non aggiunge molto di più. Il nodo vero è quello della piena garanzia di indipendenza del giudice dal pubblico ministero, necessaria per evitare che la funzione giudicante possa essere condizionata dalla pubblica accusa.

I costituzionalisti hanno maturato una opinione comune o, come è naturale che sia, sono divisi al loro interno?

La maggioranza dei costituzionalisti difende l’attuale ordinamento costituzionale, perché ritiene necessario assicurare anche al PM le medesime garanzie previste per il giudice. La subordinazione del requirente al potere esecutivo (o a linee guida stabilite dal Parlamento) viene ritenuta una minaccia per l’esercizio dell’azione penale e la sua obbligatorietà. Una dei punti di forza della disciplina costituzionale del PM è che ha permesso di portare allo scoperto i fenomeni di corruzione pubblica come tangentopoli, e di perseguire i grandi crimini di terrorismo e le associazioni di stampo mafioso.

Dal tuo osservatorio di costituzionalista, quali altri referendum impattano in misura rilevante con l’assetto organizzativo dello Stato o della organizzazione della giustizia?

Il più rilevante è sicuramente il referendum sui limiti alla custodia cautelare che prevede l’abolizione del più importante motivo per l’adozione del provvedimento restrittivo della libertà personale, cioè la reiterazione del reato.

In concreto?

Se il referendum avrà esito positivo, la possibilità di ricorrere ai provvedimenti restrittivi e cautelari potrebbe avvenire soltanto per gli altri due motivi, che si riferiscono a casi limitati e difficilmente riscontrabili in concreto: il pericolo di fuga e l’inquinamento delle prove. Oltre che dai radicali, questo quesito è stato fortemente voluto dalle Camere penali, in funzione ipergarantista. Certo, stride con la vocazione giustizialista dell’altro partito promotore, ossia la Lega. Non a caso, a destra ha preso nettamente le distanze da questo quesito il partito di Fratelli d’Italia. Oltre all’effetto retroattivo, c’è il rischio di depotenziare il principale strumento dell’istruttoria penale.

Cosa dice il costituzionalista?

La Costituzione assicura il valore della libertà personale, il principio della non colpevolezza fino a sentenza definitiva e, quindi, ritiene eccezionali e residuali misure restrittive anche se in via cautelare. Pertanto, impone al legislatore un’attenzione massima nei confronti degli indagati, per attuare i valori costituzionali. Se si ritiene che, in concreto, l’uso della custodia cautelare sia eccessivo, più che mediante un referendum abrogativo, seppure puntuale come questo, sarebbe necessario un intervento legislativo globale e più attento alle garanzie costituzionali.

I magistrati cosa dicono?

Alcuni PM più esposti mediaticamente hanno espresso giudizi molto ruvidi: Pier Camillo Davigo ha dichiarato che è un “referendum per candidare pregiudicati”; altri che si tratterebbe di “un favore ai mafiosi, ladri e scippatori”. In genere i PM sono preoccupati da questo quesito perché viene meno la ragione principale per concedere misure cautelari, In realtà, come ritengono alcuni, il venir meno della reiterazione del reato comporterà un’interpretazione estensiva degli altri due motivi, rendendo sostanzialmente inutile il referendum.

E gli altri referendum?

Un quesito riguarda in minima parte l’elezione dei togati al CSM: si vuole abolire la norma della l. 195/1958, che prevede che le candidature siano supportate da almeno 25 sottoscrizioni. In questo modo si crede possibile depotenziare il potere delle correnti della magistratura. Si tratta di un quesito tecnicamente molto poco incisivo e sostanzialmente inefficace rispetto all’obiettivo politico. Le correnti detengono un potere effettivo all’interno della magistratura, la cui limitazione richiederebbe misure molto più importanti, anche se non facili da individuare. La Ministra Marta Cartabia sta incontrando moltissime difficoltà nel tentare di cambiare la formula elettorale per l’elezione dei togati al Csm proprio perché le correnti si sono messe di traverso ritenendo inaccettabile ogni misura che ne comprometta la libertà d’azione.

Quello sui Consigli giudiziari?

L’obbiettivo è di consentire alla componente laica, gli avvocati e dove previsto i professori universitari, di poter discutere e deliberare anche sulla valutazione dei magistrati, al pari della componente togata. Da un punto di vista generale si tratterebbe di equiparare i poteri dei laici nei consiglio giudiziari a quelli della componente laica del CSM, anche perché le deliberazioni dei consigli giudiziari non sono definitive, ma sono soggette all’approvazione dell’organo di autogoverno, il CSM. I magistrati sono ovviamente contrari, perché temono una riduzione del potere delle correnti e della loro indipendenza. Anche una parte dell’avvocatura ritiene rischiosa una simile previsione, temendo ritorsioni nella professione da parte dei magistrati nei cui confronti verrebbero chiamati ad esprimere giudizi.

Cosa dice il costituzionalista?

Da un punto di vista logico è sensata la equiparazione dei Consigli giudiziari al CSM, in concreto occorre tener presente l’equilibrio che deve essere mantenuto fra l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati e la serenità di giudizio e la libertà professionale degli avvocati.

E la legge Severino.

Il quesito chiede l’abrogazione totale del d.lgs. 235 del 2012, che prescrive l’incandidabilità e il divieto di ricoprire cariche elettive e di governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi. In applicazione di questa legge il Senato pronunciò la decadenza di Silvio Berlusconi, larga applicazione ha avuto a livello regionale e locale. Rappresenta uno strumento eccezionale di garanzia contro fenomeni di corruzione politica e i promotori perseguono un obbiettivo di maggior tutela della libertà della politica.

Dal tuo osservatorio di costituzionalista, questa legge è figlia della stagione del giustizialismo?

Anche questa legge è frutto del conflitto fra magistratura e politica che si è manifestato a partire dall’inchiesta di mani pulite, che ha portato alla riduzione delle prerogative parlamentari sancite nell’art. 68 cost., sostituendo all’immunità dai processi, l’immunità dagli arresti. Questo conflitto non si è più risolto, anzi si è aggravato nel tempo, e gli interventi normativi, come la Severino, anziché pacificare hanno gettato benzina sul fuoco.

Cosa mi puoi dire sul quesito non ammesso circa la responsabilità dei magistrati?

Era il quesito più importante per i promotori, che pensavano di risolvere il problema dell’abuso di potere giudiziario, specie in materia penale, attraverso un referendum volto a introdurre una responsabilità diretta del magistrato per colpa grave. Il quesito era oggettivamente ambiguo, perché non chiariva se il fine fosse solo quello di introdurre la responsabilità diretta o anche quello di mantenere la responsabilità dello Stato, accanto a quella del magistrato. La verità è che, dopo il caso Enzo Tortora, sia la legge Vassalli, approvata dopo l’esito favorevole del referendum del 1987, sia la riforma Orlando del 2006, non sono riuscite a stabilire un meccanismo efficace per far valere la responsabilità dei magistrati in caso di errore giudiziario.

Forse che il rimedio della responsabilità è uno strumento inadeguato?

Il diritto comparato dimostra che un rimedio più efficace è la responsabilità disciplinare, assicurata da parte degli organi di autogoverno della magistratura, o da parte di giudici della responsabilità, separati dai magistrati. Nel nostro ordinamento, anche per i numeri dei procedimenti aperti, le statistiche ci dicono che l’uso della responsabilità disciplinare è più efficace della responsabilità civile.

Prof. Massimo Franzoni

Informazioni sull'autore

Massimo Franzoni