Tra il serio e il faceto

Bando letterario “La giustizia ai tempi del Covid 19”

La nostra rivista, in pieno lockdown, ritenendo che il tempo a disposizione di ognuno di noi potesse stimolare qualche riflessione o, comunque, potesse essere utilizzato per esprimere la propria creatività individuale, ha indetto un bando letterario per un racconto di fantasia che avesse ad oggetto l’attività giudiziaria in epoca di Covid 19.

L’iniziativa ha riscosso un discreto successo e, a seguito del ricevimento di alcuni elaborati, la redazione ha poi votato, rigorosamente con scrutinio segreto, quello ritenuto più meritevole.

Si è aggiudicato il primo posto il racconto dal titolo: “Se un pomeriggio di quarantena un praticante”  che qui pubblichiamo autore Michele Grifa, un neo avvocato, che si è immaginato il rapporto di un praticante con il suo dominus in epoca di piena pandemia.

Nel corso di una breve e sobria cerimonia, causa le norme restrittive in vigore, alcuni rappresentanti della redazione hanno ricevuto il vincitore presso il Consiglio dell’Ordine per complimentarsi e consegnargli il premio messo in palio; un abbonamento annuale alla banca dati On legale ed alcuni omaggi offerti dell’agente Wolters Kluwer di Bologna, dott. Andrea Boari,  che ha aderito all’iniziativa con grande entusiasmo e che ringraziamo per la partnership.


Se un pomeriggio di quarantena un praticante

 
“In piedi! Entra la Corte”. Mi svegliai sentendo queste parole, pronunciate dal grasso attore- cancelliere di uno dei tanti legal thriller americani trasmessi in tv. Ero ancora stravaccato sul divano quando elaborai un sagace pensiero: la giustizia statunitense rappresentata nei film, con i suoi tribunali in marmo, le giurie, le bandiere americane grandi come striscioni e i giudici sempre impersonati da afroamericani di impeccabile integrità, induce ad un rispetto e ad una soggezione che la giustizia italiana non ha mai sognato di poter suscitare. Erano le cinque del pomeriggio di un giorno feriale in piena quarantena da Covid-19 e da un po’ di tempo non avevo notizie del mio dominus. Iniziai a preoccuparmi dopo i primi due giorni di silenzio stampa, trascorsi nella goduria di non dover leggere mail chilometriche o rincorrere qualche disperato cliente per il pagamento di una parcella. Che gli fosse successo qualcosa? Che fosse caduto vittima del Coronavirus anche l’avvocato Guido La Gente? “Impossibile” pensai, avendo in mente l’immagine che conservavo di lui dal nostro primo colloquio. Un omone alto, elegante e, almeno apparentemente, sempre sicuro di sé e di quello che faceva. Il tipico golden boy che in un modo o nell’altro se la cava sempre col sorriso sulle labbra. Eppure, non si faceva sentire.

In quel periodo di crisi – lo dicevano tutti i giornali – i professionisti non se la passavano granché, economicamente parlando. A dir il vero, l’intera categoria legale aveva iniziato a piangere miseria già da un pezzo, a prescindere dal Covid-19. “Ma questa è un’altra storia”, disse la voce di Mike Bongiorno che abitava nella mia testa, richiamandomi al problema principale. Che il grande capo avesse deciso di sbarazzarsi di me per tagliare i costi e magari, dopo aver imparato a convertire da solo un file word in pdf, stesse cercando un modo per dirmelo? Con questa fobia che iniziava ad impadronirsi della mia psiche già rattrappita da settimane di quarantena, selezionai Peppino di Capri su Spotify, mi feci strada verso il frigo e decisi di festeggiare l’imminente fine della mia breve carriera di praticante con la bottiglia di frizzantino che tenevo in serbo per quando Giuseppi avrebbe annunciato la scoperta del vaccino anti-Covid. Secondo il contratto mentale stipulato con me stesso, fossi stato graziato da un’abolizione dell’esame di Stato come capitato ai medici sarei stato comunque legittimato al brindisi. E fu proprio il rigurgito di speranza regalatomi da quest’ultimo pensiero che mi suggerì di aspettare ancora un attimo prima di abbandonarmi al malinconico festeggiamento. Con la scusa di recuperare una pratica, avrei potuto fare una capatina in studio e cercare di raccogliere qualche indizio sulle sorti del mio guru della professione. Bardato con guanti e mascherina, raggiunsi l’ufficio. Entrai piano piano e, con grande stupore, scorsi la sagoma dell’avvocato La Gente nel corridoio, mentre si affrettava a rientrare nella sua stanza e riprendere una telefonata. Udendo lo scatto della serratura, si voltò e mi vide comparire sulla soglia. In un primo momento mi apostrofò per lo spavento che gli feci prendere, poi mi disse di dover sistemare una questione e di aspettarlo lì nell’ingresso. Al suo ritorno avrei dovuto spiegargli il motivo della mia improvvisata. La Gente sparì in fondo al corridoio ed io rimasi fermo in mezzo alla stanza, in piedi e in piena fase digestiva dei fatti accaduti. Con la coda dell’occhio riuscivo ad intravedere la mia angusta stanzetta e il libricino appoggiato sulla scrivania, “Elogio dei praticanti scritto da uno di loro” (libro che in effetti non esiste, ma che meriterebbe di esser scritto). Cercai di concentrarmi e abbozzare mentalmente una storia plausibile da raccontargli. Il mio cervello però era bloccato e non riusciva a ragionare su cosa dire, restando ingarbugliato nel pensare a quelle classiche frasi di stile con cui quotidianamente farcivo gli atti difensivi. Mi trovavo assorto in questi ed altri profondi pensieri quando d’improvviso la porta dello studio si schiuse, facendo comparire la figura di Elvira, storica segretaria factotum dell’avvocato. Con uno sguardo in bilico tra il circospetto e lo stupito, Elvira chiuse lentamente la porta, togliendosi la mascherina chirurgica indossata a rovescio e liberandosi il capo dal variopinto foulard, col quale – a suo dire – dava una “bella svecchiata” alla sua immagine. Proprio. Dopo un breve scambio di battute realizzai che entrambi eravamo lì per cercare di placare l’agitazione scaturente dalla medesima paura di esser licenziati. Anche lei, come me, non aveva più avuto contatti con La Gente da qualche giorno e i suoi pensieri, stimolati dalla segregazione domiciliare, iniziavano ad esser vittima di paranoie. Fu il cosiddetto ‘mal comune’ a rasserenarci almeno per un momento, permettendoci di condividere un caffè alla vecchia macchinetta automatica in corridoio. D’un tratto, finalmente, l’avvocato riemerse dalla propria stanza. Ci aveva ormai quasi raggiunti quando Elvira iniziò ad indietreggiare, strillandogli addosso con isterismo di indossare i “dì-ppi-i” antivirus. Rimediata una mascherina, La Gente chiese cosa ci facessimo in studio in piena pandemia con quell’aria angustiata. Elvira ed io descrivemmo con quanto più tatto possibile la ragione dei nostri timori, dopodiché il nostro capo si lasciò sfuggire un sorriso compiaciuto. Erano paure infondate, ci rassicurò, ma se non altro – soggiunse – ci avevano permesso di comprendere le preoccupazioni che lui stesso, a sua volta, provava quotidianamente nel gestire la propria clientela. “Quando agganci un cliente inizi a perderlo”, era la frase che mi ripeteva quando accoglievo con troppo entusiasmo un nuovo caso capitato in studio. Ci vollero il Coronavirus e quella tragicomica situazione per farmi comprendere il triste e vero significato delle sue parole.

D’un tratto, mentre mi trovavo ancora in mezzo al corridoio, in quel pomeriggio di un giorno di quarantena realizzai una cosa. Appena iniziata la pratica professionale, fresco di laurea, passavo le giornate a lamentarmi della mia condizione precaria e della bassa paga che percepivo. Eppure, oggi, il pensiero di dovermi lasciare alle spalle quel microcosmo che ruotava attorno allo studio dell’avvocato La Gente mi aveva spaventato. Non avrei mai voluto abbandonare i miei casi, perdere familiarità col Palazzo di Giustizia, con l’ambiente forense e con la tabaccaia di Piazza dei Tribunali. Avrei finito col provare nostalgia dei quotidiani incontri che il lavoro di praticante mi portava a fare. Il Covid-19 mi aveva già dato un assaggio di quella malinconia. Le udienze celebrate al computer erano solamente una brutta copia di quelle a cui mi ero abituato e che tanto mi affascinavano. Tornato in possesso del mio delicato equilibrio psichico, ne approfittai per togliermi una curiosità e chiedere a La Gente cosa ci facesse in studio tanto indaffarato. Col suo caratteristico fare istrionico e (potrei giurarci) romanzando non poco i fatti, l’avvocato raccontò a me e alla sua innamoratissima segretaria di come, a causa del suo cognome mal riportato su un verbale, fosse caduto vittima di unmalinteso con le Forze dell’Ordine, che ora stava tentando di chiarire. “Chiamarsi ‘La Gente’ quando sono vietati gli assembramenti rischia di diventare spiacevole”, concluse, “ma se non altro, finita la quarantena, avrò qualcosa da raccontare al bar del Tribunale”.

Michele Grifa

Se un pomeriggio di quarantena un praticante (pdf)

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