Aggiornamenti in pillole

L’assegno di mantenimento per il coniuge nella separazione: verso l’equiparazione dei criteri attributivi dell’assegno divorzile?

Due pronunce di legittimità – l’ordinanza Cass. Civ. Sez. VI, 19 giugno 2019, n. 16405 e l’ordinanza Cass. Civ. sez. VI, 15 ottobre 2019, n. 26084 – hanno recentemente scosso, in ambito giuridico, la dominante e pacifica convinzione che le attribuzioni economiche rese in sede di separazione coniugale e di cessazione/scioglimento del matrimonio siano da ritenersi differenti, e ciò per la diversa natura e funzione dell’assegno di mantenimento rispetto a quello divorzile, come pure per i diversi requisiti richiesti per il loro accertamento e la loro determinazione in ambito processuale. Ciò, soprattutto, dopo che, con la sentenza n. 18287/2018, le Sezioni Uniti della Cassazione hanno dato all’art. 5, comma 6, Legge div. una interpretazione decisamente innovativa, sino ad introdurre l’argomento fondante, in forza del quale – prescindendo dal tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, ora superato (sul cui accertamento per circa trent’anni si era fondata, fra l’altro, l’attribuzione dell’assegno divorzile) – «il principio di solidarietà, posto a base del riconoscimento del diritto, impone che l’accertamento relativo all’inadeguatezza dei mezzi ed all’incapacità di procurarseli per ragioni oggettive sia saldamente ancorato alle caratteristiche ed alla ripartizione dei ruoli endofamiliari».[1]

Le pronunce qui in esame, introducendo la possibile applicazione anche all’assegno di mantenimento di quelli che sono i principii sanciti ora per l’assegno divorzile, hanno finito per ritenere priva di rilevanza il tenore di vita matrimoniale, preferendo aderire al concetto della solidarietà nella valutazione dei parametri dell’accertamento. Solidarietà che, com’è noto in forza della sentenza delle Sezioni Unite del 2018, investe la valutazione per l’attribuzione dell’assegno di divorzio, laddove il contributo alla vita familiare e la rinuncia da parte il richiedente l’assegno ad un lavoro (o alle aspettative di carriera) per favorire la partecipazione attiva e la contribuzione alla vita matrimoniale, siano stati effettuati in modo condiviso dai coniugi (funzione compensativa).

Pertanto, a prescindere dal molto clamore mediatico che hanno suscitato, le pronunce n. 16405 e n. 26084 hanno finito per creare un comprensibile “spaesamento” fra gli operatori del diritto, non fosse altro per la giustificata perplessità sulle conseguenze e sugli effetti che da tale interpretazione possono derivare, a cominciare dagli aspetti probatori e processuali.

Qui si cercherà di fornire, se non soluzioni interpretative, almeno alcune considerazioni, partendo da un breve excursus dei requisiti propri della c.d. teoria generale delle obbligazioni di mantenimento coniugale in sede di separazione; passando poi per una disamina dell’ordinanza Cass. Civ. Sez. VI, 19 giugno 2019, n. 16405 e dell’ordinanza Cass. Civ. sez. VI, 15 ottobre 2019, n. 26084; finendo con alcune riflessioni.

I presupposti dell’assegno di mantenimento per il coniuge in caso di separazione personale – La teoria tradizionale e la giurisprudenza consolidata

È notorio che, al coniuge economicamente più debole, al quale non sia addebitabile la separazione, possa essere riconosciuto un assegno di mantenimento, allorquando ricorrano i presupposti di cui all’art. 156 del codice civile. Con riferimento all’an debeatur, la norma prevede che il coniuge ha «diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri». Il quantum debeatur, secondo la stessa disposizione, «è determinato in relazione alle circostanze e ai redditi dell’obbligato».

Questa è, di fatto, l’unica disposizione che disciplina i rapporti patrimoniali tra i coniugi in caso di separazione e, com’è stato correttamente commentato, «sulla base di queste scarne indicazioni –  risalenti alle modifiche introdotte nel codice con la riforma del diritto di famiglia del 1975 – nel tempo sono stati definiti i contorni di una teoria generale delle obbligazioni di mantenimento coniugale in sede di separazione che si è mantenuta fino ad oggi sostanzialmente inalterata».[2]

Sino alle recenti pronunce di legittimità qui in commento, infatti, gli elementi su cui si è fondato il diritto all’assegno di mantenimento sono stati ritenuti diversi e non modificabili, neppure dopo che la nota sentenza delle Sezioni Unite del 2018 ha fornito una interpretazione innovativa dei principii che governano la disciplina dell’assegno divorzile. Si è ritenuto che la differente funzione dei due tipi  di assegno conservasse ciascuna la propria peculiarità (come sostenuto da autorevoli commentatori)[3], affermandosi la natura eminentemente assistenziale (specifica e correlata al tenore di vita matrimoniale) dell’assegno di mantenimento per il coniuge economicamente più debole, nel senso che, in linea di continuità rispetto alla vita matrimoniale «costituisce una sorta di proiezione, nella fase patologica del rapporto, dei doveri nascenti dal matrimonio, in particolare del dovere di contribuzione.  Poiché infatti la separazione non estingue il vincolo coniugale e non sospende né estingue i diritti di contenuto economico ad esso attinenti, il coniuge separato conserva il diritto all’assistenza materiale che, con il venir meno della convivenza, si tramuta nel diritto al mantenimento».[4]

Questa è stata l’interpretazione prevalente e dominante, sorretta da una giurisprudenza consolidata, dalla quale si erano discostate soltanto voci minoritarie, che avevano ritenuto, in senso contrario, che il mantenimento non si ponesse in linea di continuità rispetto al rapporto matrimoniale, ma avesse di mira la tutela del coniuge più debole nel momento della crisi (natura prettamente assistenziale), non agganciandola al tenore di vita (ciò che è ora sostenuto negli arresti giurisprudenziali qui in commento).

Pertanto, nella prevalenza giurisprudenziale, la funzione assistenziale dell’assegno si confermava essere quella di fornire al coniuge, non dotato di redditi propri adeguati, un sostegno di tipo economico successivo alla cessazione della convivenza, ma in linea di continuità con essa, avendo la finalità di fargli conservare un tenore di vita analogo a quello matrimoniale, nei limiti di quanto consentito dalle capacità economiche del coniuge obbligato.

Tale interpretazione, (secondo la teoria generale sopra menzionata), trarrebbe la propria ratio dal principio della solidarietà coniugale c.d. “affievolita”, nella quale un primo e fondamentale elemento è che l’obbligazione di mantenimento in sede di separazione avrebbe sostanzialmente la stessa natura di quella ai sensi dell’art 143 c.c., quale proiezione degli obblighi di mantenimento reciproci derivanti dal matrimonio, nonché estrinsecazione del generale dovere di assistenza materiale, che permane anche dopo la cessazione della convivenza, se pure trasformata in obbligazione di separazione e sempre che  sussistano i presupposti di cui all’art. 156 c.c.[5] In sede di separazione, pertanto, si verificherebbe una continuazione del dovere di assistenza morale e materiale nei confronti del coniuge. In costanza di matrimonio, il mantenimento costituisce uno dei momenti che sostanziano il rapporto di collaborazione economica di vita dei coniugi. Nella separazione, si trasformerebbe nel dovere di non far venir meno, per il coniuge economicamente più debole, l’apporto economico ed il conseguente tenore di vita che il rapporto matrimoniale assicurava.

Con questa impostazione interpretativa dominante, si era escluso che l’assegno di mantenimento potesse avere anche una funzione compensativa, tesa cioè a ricompensare il coniuge dei sacrifici fatti nel corso della vita matrimoniale, e neppure una funzione risarcitoria delle conseguenze negative derivanti dalla cessazione della convivenza.

Ciò posto, rimaneva il compito di riempire un vuoto normativo, nel senso che, in mancanza di uno strumento completo, che fornisse cioè gli indicatori sui quali parametrare il concetto di “inadeguatezza dei redditi” al fine di fornire una  garanzia al coniuge economicamente più debole,  l’elaborazione giurisprudenziale ha finito per colmare tale lacuna, creando come parametro quello del tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale (non necessariamente identico) , pertanto senza nessuna discontinuità con il periodo precedente matrimoniale, dopo la separazione.

La questione centrale dell’an debeatur, oggetto di ampia disamina anche dottrinale, ha finito per conseguire ad una definizione pressoché consolidata, in forza della quale la giurisprudenza sul punto ha sempre interpretato univocamente tale presupposto, nel senso di «non avere redditi adeguati a conservare il tenore di vita goduto nel corso del matrimonio». Ne deriva che il contributo economico spetta al coniuge i cui propri redditi non siano sufficienti a consentirgli di godere del pregresso train de vie familiare (ex multis, Cass. civ. 7 luglio 2008)[6].

Il criterio è stato più volte specificato e riempito di significato: a) con la separazione coniugale non viene meno la solidarietà economica che ha legato i coniugi durante il matrimonio (e che comporta la condivisione delle reciproche fortune/sfortune nel corso del matrimonio), sicché occorre tener conto dell’incremento o del decremento dei redditi dell’obbligato o del beneficiario, anche se si verifica nelle more del giudizio di separazione personale; b) tenore di vita goduto in costanza di matrimonio (come detto, di derivazione giurisprudenziale) da intendersi come la proiezione della tendenziale conservazione di quel tipo di vita, anche dopo la cessazione della convivenza matrimoniale; c) tenore di vita, quale parametro  per valutare l’inadeguatezza dei redditi del richiedente l’assegno, desumibile «dalle potenzialità economiche dei coniugi durante la vita matrimoniale, quale elemento condizionante la qualità delle esigenze e l’entità delle aspettative del richiedente» (ex multis, Cass. civ. 12 settembre 2011, n. 18618), peraltro non rilevando che il richiedente abbia, prima della separazione, accettato o tollerato un tenore di vita più modesto; – inoltre, quale obiettivo dell’assegno stesso (nel senso di soddisfare all’avente diritto il mantenimento del trend economico matrimoniale)[7].

Nella fase di valutazione della debenza dell’assegno di mantenimento (a differenza di quella per l’assegno divorzile) non si tiene conto (in via prevalente) della capacità lavorativa del richiedente e la situazione reddituale e patrimoniale delle parti[8] viene “fotografata” dal giudice per verificare la sussistenza dei presupposti, almeno in via teorica, per il riconoscimento dell’assegno di mantenimento per il coniuge ex art. 156 c.c. e ciò indipendentemente dalle ragioni dell’inattività lavorativa  del richiedente che, semmai, verrà valutata nella fase della quantificazione dell’assegno (Cass. civ. 21 novembre 2008, n 27775; Cass. Civ., 13 febbraio 2013, n. 3502).

In sintesi, dal concetto di adeguatezza si desume se vi sia, da parte del richiedente, uno squilibrio o una evidente disparità reddituale con l’altro coniuge, ma non che debba sussistere uno stato di bisogno. Ciò comporta: -innanzitutto un confronto tra le condizioni economiche dei coniugi per verificare se esista o meno una disparità; -nel ricostruire e confrontare se vi sia una situazione di squilibrio o di disparità tra i coniugi, non è necessario determinare l’esatta situazione patrimoniale di entrambi, quanto piuttosto un’attendibile ricostruzione delle complessive situazioni patrimoniali e reddituali di ognuno (ex multis, Cass. Civ. 12/06/2006 n. 13592).

Vi è, comunque, l’esigenza di contemperare l’impatto che l’onere contributivo ha nei confronti dell’obbligato (Cass. civ., 10 giugno 2014, n.13026), poiché «la separazione determina un impatto sulla macroeconomia domestica familiare con l’effetto di un diverso declinarsi delle due vite da single, in due microeconomie personali e non potrà consentire tutte quelle sinergie di risparmi prima possibile» (Trib. Varese, 4 gennaio 2012). Perciò, nella maggioranza dei casi, l’assegno di mantenimento garantisce solo un “tendenziale” tenore pregresso, con la necessaria ricerca da parte del giudice di un attento punto di equilibrio tra le nuove situazioni delle parti. La giurisprudenza degli ultimi decenni è stata, pertanto, «assolutamente univoca in questa interpretazione con la precisazione che, da un lato, si richiama il tenore di vita goduto nel corso del matrimonio quale criterio attributivo del diritto all’assegno di separazione e, dall’altro, si avverte, però, che il giudice non può non tener conto dell’impoverimento complessivo che la separazione determina di solito nella coppia coniugale e che, pertanto, il mantenimento del tenore di vita va considerato come  un obiettivo evidentemente tendenziale».

Questo lo stato dell’arte, sino alle pronunce qui oggetto di disamina.

Commento all’ordinanza Cass. Civ. Sez. VI, 19 giugno 2019, n. 16405 e all’ordinanza Cass. Civ. sez. VI, 15 ottobre 2019, n. 26084

L’ordinanza n. 16405/2019[9]. Con la pronuncia in esame, la Cassazione ha confermato la sentenza di merito con la quale, escluso l’addebito per violazione degli obblighi coniugali, aveva dichiarato l’obbligo del marito alla corresponsione di un assegno di mantenimento in favore della moglie (pur in misura ridotta a quanto  richiesto) ed ha affermato che: – alla breve durata del matrimonio[10], non possa essere riconosciuta efficacia preclusiva del diritto all’assegno di mantenimento, ove dell’assegno sussistano gli elementi costitutivi, quali la non addebitabilità della separazione al coniuge richiedente[11], la non titolarità, da parte del medesimo, di adeguati redditi propri, la sussistenza di una disparità economica tra le parti.

Con riguardo al criterio del tenore di vita, quale parametro per la determinazione dell’inadeguatezza dei redditi propri del richiedente (al fine dell’attribuzione dell’assegno di mantenimento in suo favore), al contrario di quanto da sempre sostenuto (come sopra visto), la Cassazione ha affermato l’irrilevanza del tenore di vita, arrivando a ritenere che, anche nel caso di determinazione dell’assegno di mantenimento, valgono le regole ed i criteri stabiliti dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 18287/2018, vale a dire, fra l’altro, quello di ritenere  non più rilevante il tenore di vita per la determinazione dell’assegno divorzile.

La evidente rilevanza che la novità interpretativa ha comportato, peraltro, si desume proprio dalla  affermazione in forza della quale la funzione dell’assegno di mantenimento non sarebbe quella di realizzare, anche dopo la separazione coniugale, «un tendenziale ripristino del tenore di vita goduto da entrambi i coniugi nel corso del matrimonio», finendo così per disconoscere l’orientamento trentennale sulla rilevanza di questo criterio, che, come sopra esaminato, ha da sempre costituito il parametro per dare un contenuto alla inadeguatezza dei redditi propri del richiedente l’assegno di mantenimento.

Con questa pronuncia la Cassazione ha ritenuto, dunque, che – anche all’assegno di mantenimento previsto in caso di separazione – si possono applicare i principii sanciti dalle S.U. n.  18287/2018 per l’assegno divorzile. Arrivando a sostenere che la funzione dell’assegno di mantenimento, «non è più, neanche dopo la sentenza delle Sezioni Unite n. 18287/2018 dell’11 luglio 2018, quella di realizzare un tendenziale ripristino del tenore di vita goduto da entrambi i coniugi durante il matrimonio ma invece quello di assicurare un contributo volto a consentire al coniuge richiedente il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare».

L’ordinanza n. 26084/2019[12]. Con questa pronuncia, la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza di merito, che aveva dichiarato la nullità del procedimento di primo grado, per la mancata corretta convocazione dell’altro coniuge all’udienza presidenziale nel procedimento di separazione coniugale e per non essere stata da questi ricevuta la successiva notifica dell’ordinanza di fissazione dell’udienza davanti al giudice istruttore, non ritenendo comunque sussistere la necessità della rimessione della causa al primo giudice; nel merito, dopo aver confermato l’irreversibilità della convivenza matrimoniale, aveva ritenuto fondata la domanda del marito di vedersi riconosciuto un assegno di mantenimento, disposto poi a carico della moglie nella misura di € 1.500,00; ha affermato che: -a fronte della nullità del procedimento di primo grado, per violazione del contraddittorio, ove impugnata la sentenza dal contumace, il giudice di secondo grado non è tenuto a rimettere la causa al primo, potendo decidere, dopo aver disposto la rinnovazione degli atti travolti dalla nullità;[13] – la separazione dei coniugi deve trovare causa e giustificazione in una situazione d’intollerabilità della convivenza, da intendersi in senso soggettivo, non essendo necessario che sussista una situazione di conflitto riconducibile alla volontà di entrambi i coniugi[14].

Con riguardo alla misura dell’assegno, la Corte osserva: «la sentenza della Corte distrettuale appare pienamente conforme alla giurisprudenza di legittimità (Cass. Civ. S.U. n. 18287/2018), secondo cui “la funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi, anch’essa assegnata dal legislatore all’assegno divorzile non è finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi”. Risulta pertanto priva di rilevanza la richiesta di provare l’alto tenore di vita goduto in costanza di matrimonio e la rilevante consistenza del patrimonio della signora (omissis), dovendosi attribuire all’assegno divorzile, alla luce della giurisprudenza di legittimità, una funzione assistenziale ampiamente soddisfatta dalla misura dell’assegno riconosciuto al ricorrente e una funzione compensativa che non trova riscontro nelle sue deduzioni difensive e istruttorie».

A parte l’inciso evidentemente errato (assegno divorzile, in luogo di assegno di mantenimento), sembra di poter affermare che – conformemente all’ordinanza n. 16495/2019 sopra esaminata – la Corte abbia ritenuto di parificare la natura e la funzione dei due assegni, applicando uniformemente i principii della sentenza S.U. n. 18287/2018 (funzione riequilibratrice del reddito degli ex coniugi, tenuto conto del contributo fornito dall’ex coniuge più debole economicamente alla vita familiare). Il tenore di vita non viene più considerato un parametro di riferimento per la determinazione dell’assegno di mantenimento.   Pertanto, nella fattispecie in esame, l’entità dell’assegno, disposto in favore del marito, soddisferebbe pienamente la funzione assistenziale, mentre quella compensativa non era stata né allegata, né provata dal richiedente.

Il che starebbe a significare, per quanto qui affermato, che anche l’assegno di mantenimento dovrebbe tenere conto delle stesse regole applicabili oggi per l’attribuzione dell’assegno divorzile.

Conseguenze applicative

Proprio con riferimento a quest’ultimo aspetto, ci si domanda se i recenti arresti giurisprudenziali, vale a dire sulla applicabilità anche alla separazione coniugale dei medesimi criteri per l’attribuzione dell’assegno divorzile, comporti il definitivo venir meno del criterio del tenore di vita anche per la determinazione dell’assegno di mantenimento in favore del coniuge economicamente più debole. Con la nuova prospettazione, si dovrebbe, pertanto, dare riscontro e prova del contributo (da parte del richiedente l’assegno) alla realizzazione della vita familiare in costanza di matrimonio, conformemente ai criteri e ai principii annunciati dalla sentenza Sezioni Unite del 2018.

La questione è rilevante e di non poco conto, se solo si pensa alle implicazioni applicative, sotto il profilo delle allegazioni, probatorio e processuale nei procedimenti di separazione coniugale, della medesima disciplina prevista per la determinazione dell’assegno divorzile.

Ma ci si domanda se l’enunciazione affermata nelle ordinanze esaminate possa o debba imporsi sulla consolidata diversità di disciplina delle due diverse attribuzioni economiche, nei processi che attengono la crisi coniugale, poichè – a ben vedere – nessuna esplicazione viene data sul motivo di tale equiparazione, se non un mero richiamo alla sentenza delle S.U. 2018.

Il dubbio non è privo, com’è ovvio, di conseguenze, tanto più perché inserito in un panorama giurisprudenziale variegato e complesso.

Da un lato, infatti, con riguardo all’assegno di mantenimento, la giurisprudenza è stata sostanzialmente uniforme nell’affermare – anche dopo la sentenza S.U. 2018 – la differenza della funzione e del regime dei due assegni, nel senso sotto indicato (peraltro, si annota che la medesima sezione VI della Cassazione, a distanza di pochi giorni da quella in commento n. 16495/2019, sembra smentire il proprio precedente):

Cass. civ. Sez. VI, Ord., 24 giugno 2019, n. 16809: «Al fine della quantificazione dell’assegno di mantenimento a favore del coniuge, al quale non sia addebitabile la separazione, compito del giudice di merito è accertare, per valutare la congruità dell’assegno, il tenore di vita di cui i coniugi avevano goduto durante la convivenza, quale situazione condizionante la qualità e la quantità delle esigenze del richiedente, accertando le disponibilità patrimoniali dell’onerato. A tal fine, il giudice non può limitarsi a considerare soltanto il reddito emergente dalla documentazione fiscale prodotta, ma deve tener conto anche degli altri elementi di ordine economico, o comunque apprezzabili in termini economici, diversi dal reddito dell’onerato, suscettibili di incidere sulle condizioni delle parti».

Corte d’Appello Palermo, Sez. I., Sentenza, 9 agosto 2019: «La separazione personale comporta la permanenza del vincolo coniugale, sicché i redditi adeguati cui va rapporto l’assegno di mantenimento a favore del coniuge, ex art. 156 c.c., in assenza della condizione ostativa dell’addebito, sono quelli necessari a mantenere il tenore d vita goduto in costanza di matrimonio. In caso di separazione va ritenuto, invero, ancora attuale il dovere di assistenza materiale, che non presenta alcuna incompatibilità con tale situazione temporanea, dalla quale deriva solo la sospensione degli obblighi di natura personale di fedeltà, convivenza e collaborazione, e che ha una consistenza ben diversa dalla solidarietà post-coniugale, presupposto dell’assegno di divorzio».

Tribunale di Milano, Sez. XI, 26 marzo 2019: «Ritenuto che, a fronte della situazione reddituale e patrimoniale dei coniugi…e considerato che in questa fase …l’assegno a favore della signora X ha ancora una valenza di assegno di mantenimento, i cui criteri di attribuzione e quantificazione sono diversi rispetto a quelli dell’assegno divorzile (Cass. Sez. I, 16/05/2017, n. 12196)[15], non potendo in ogni caso non osservarsi sin d’ora in prospettiva prognostica che, data la durata del matrimonio celebrato nel 1977 e il contributo dato dalla resistente alla attuale e ben più significativa capacità reddituale del marito… sembrano sussistere anche i presupposti per il riconoscimento… all’esito di questo giudizio dell’assegno divorzile, deve determinarsi l’assegno di mantenimento dovuto dal signor Y alla signora X in € 1.200,00 mensili; si tratta di misura adeguata a consentire alla signora X di provvedere al proprio mantenimento, mantenendo un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, certamente di una certa consistenza e considerata anche l’imposizione fiscale su tale assegno gravante».

Dall’altro lato, anche per l’attribuzione dell’assegno divorzile, la giurisprudenza ha già avuto modo di affermare che non si debba fare riferimento necessariamente alla triplice funzione (assistenziale, perequativa, compensativa) riconosciuta dal nuovo orientamento delle Sezioni Unite 2018 e all’esigenza di verificare ruoli endofamiliari e sacrifici economici restrittivi dell’affermazione di una propria autonoma situazione economica da parte del richiedente l’assegno divorzile, potendosi discostare dai nuovi criteri e parametri di accertamento.  Questo, quanto meno, è ciò che emerge dalla pronuncia Cass. civ. Sez. VI, 10 aprile 2019, n. 10084, in forza della quale il presupposto attributivo dell’assegno di divorzio è qui rappresentato dall’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente e dall’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive. In presenza di tali circostanze – accompagnate dall’età del beneficiario, dall’assenza di redditi e di attività lavorativa, dalla mancanza di specializzazioni professionali e dalla crisi del mercato del lavoro occupazionale – non osta necessariamente al suo riconoscimento il fatto che il matrimonio sia stato di breve durata e, pertanto, minimo il contributo alla formazione del patrimonio comune.  Qui sembra perdurante e prevalente la natura assistenziale dell’assegno divorzile, cosicché l’inadeguatezza dei redditi in capo al richiedente e più in generale l’acclarata assenza dei mezzi a disposizione, danno fondamento alla richiesta dell’assegno, con la conseguenza che «Tale risultato potrebbe esprimersi allora anche in altri termini: che nella nuova mappatura delle funzioni dell’assegno di divorzio operata dalle Sezioni Unite, la componente assistenziale, che prima di tale intervento era ritenuta l’unica sopravvissuta e, ad esito dello stesso, è stata invece affiancata dalle ritrovate funzioni perequativa e compensativa, resta comunque sotto alcuni profili oggi prevalente».[16]

Ciò porta a far ritenere che, sulla scorta di quanto sin qui si è cercato di esaminare, si tratterà di vedere se appaia prematuro pensare ad una equivalenza anche per l’assegno di mantenimento dei criteri propri e nuovi dell’assegno divorzile, quest’ultimo alla fine destinato forse a continuare ad esplicare una importante funzione anche sociale, mentre l’assegno di mantenimento risponde all’esigenza di soddisfare i principii generali della solidarietà coniugale. Tuttavia, non è trascurabile, semmai, l’altro aspetto che attiene al breve lasso temporale che, com’è noto, può intercorrere fra il procedimento della separazione coniugale e quello del divorzio, con tutte le conseguenze inerenti alla qualificazione dei due distinti assegni e alle diverse esigenze processuali inerenti le allegazioni e le prove, rendendo auspicabile un intervento del legislatore al riguardo.

Avv. Stefania Tonini
Referente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Bologna 

[1] Gianfranco Dosi, «Assegno di mantenimento», in «Lessico di diritto di famiglia».

[2] Gianfranco Dosi, op.cit.

[3] Prof. Avv. Michele Sesta, “L’assegno di divorzio: funzione assistenziale e finalità perequativa-compensativa a confronto”.
Prof. Avv. Enrico Al Mureden “Parità tra coniugi ed equa divisione del “capitale invisibile” nel nuovo assegno divorzile”.
Dott. Bruno De Filippis “Contenuti e problematiche del mantenimento, dalla separazione all’epoca post divorzile”.

[4] Barbara Grazzini, “Assegno di mantenimento “a tempo” fra “autosufficienza economica e rinuncia al diritto” in “Famiglia e Diritto” 7/2015.

[5] Con riguardo ai presupposti derivanti dalla disciplina dell’art. 156 c.c., com’è noto, l’attribuzione dell’assegno di mantenimento si riconosce in presenza dei due specifici presupposti, quali: -da un lato, la non addebitabilità della separazione al richiedente, per cui l’accertamento positivo della responsabilità individuale della crisi coniugale esclude in radice il diritto alla percezione di un assegno di mantenimento. Ai fini della declaratoria dell’addebito, com’è noto, non è sufficiente la pur conclamata violazione ai doveri coniugali (Cass. civ. 10 febbraio 2015, n. 2576), essendo peraltro necessario che da detta violazione sia conseguita l’impossibilità della convivenza (nesso di causalità) (ex multis, Cass. civ. 20 agosto 2014, n. 18074); – dall’altro, l’inadeguatezza dei redditi propri, con la conseguenza che il coniuge può avere diritto all’assegno di mantenimento, non solo in quanto non responsabile della frattura coniugale, ma anche se non possiede “adeguati redditi propri”, come recita l’art. 156 c.c., che, per vero, non fornisce alcuna specificazione del concetto.

[6] La giurisprudenza ha chiarito che l’assegno deve garantire al percipiente il mantenimento del pregresso tenore di vita, comprensivo di tutte le attività inerenti lo sviluppo della persona (svago o sociali) (Cass. civ. 7 luglio 2008, n. 18613), tenendo conto del contesto sociale in cui i coniugi hanno vissuto (Cass. civ. 23 ottobre 2012, n. 18175), e comprensivo di quei miglioramenti connessi agli sviluppi naturali e prevedibili dell’attività svolta in costanza di convivenza (Cass. civ. 10 giugno 2014, n. 13026).

[7] Si parla, poi, di tenore di vita effettivo, vale a dire quello della reale disponibilità dei coniugi – spese quotidiane, scelta della scuola per i figli, scelta del luogo e del modo delle vacanze, acquisti di beni di consumo, di beni voluttuari; potenziale, alla luce dei rispettivi redditi, personali, senza che possa incidere negativamente il tenore di vita inferiore, rispetto alle possibilità effettive (ex multis, Cass. civ. sez. I, 30 marzo 2009, n. 7614); possibile, viceversa in presenza di un tenore di vita matrimoniale superiore alle possibilità. Inoltre, la giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che occorre considerare non solo il tenore di vita pregresso, ma anche quello «che poteva legittimamente e ragionevolmente configurarsi sulla base di aspettative maturate nel corso della convivenza matrimoniale» (ex multis, Cass. civ. sez. I, 3 dicembre 2008, n. 28741).

[8] I “redditi” da prendere in considerazione nel giudizio di adeguatezza sono stati ritenuti – anche qui dalla giurisprudenza degli ultimi decenni praticamente in modo uniforme – nel senso di riferirsi a qualsiasi tipo di reddito o mezzo, ovvero utilità, considerando anche le capacità personali a disposizione del richiedente. Deve, pertanto, ricomprendersi (nel senso lato del concetto di “redditi”) l’eventuale patrimonio, nella misura in cui sia suscettibile di permettere al richiedente di mantenersi in via autonoma; gli investimenti mobiliari (risparmi, conti, dossier titoli, polizze assicurative immediatamente liquidabili, azioni ecc.) con riferimento agli eventuali frutti (interessi, cedole, utili); il patrimonio immobiliare,come fonte di reddito se si tratta di beni locati a terzi, ma non nella loro consistenza (senza cioè che il richiedente debba essere costretto a vendere l’immobile per mantenersi).

[9] Il caso. La Signora S. M. aveva appellato la decisione resa dal Tribunale di Padova che, nel giudizio di separazione dei coniugi, aveva respinto la sua domanda di addebito della separazione e di obbligo di un assegno di mantenimento a carico del coniuge A. B. per un importo di € 400,00 mensili. La Corte d’Appello di Venezia aveva riformato parzialmente la sentenza impugnata, dichiarando A.B. tenuto al versamento della somma di € 170,00 mensili a titolo di contributo al mantenimento di S. M. La Corte distrettuale aveva ritenuto che, se anche provati, i fatti imputati dalla moglie al marito non costituivano eclatanti violazioni del rapporto coniugale. Quanto alla domanda di assegno, la Corte distrettuale aveva tenuto conto della relativa differenza di capacità reddituale, della breve durata del matrimonio e della convivenza, della inesistenza di una condizione di agiatezza e, anzi, della difficile situazione economica in cui versava la Signora S. M. dopo la separazione, che la costringeva a vivere con i propri genitori.

[10] Con riguardo alla brevità della durata del matrimonio, il citato arresto si pone nella linea di continuità con l’orientamento espresso da Cass. civ. sez. I, 18 gennaio 2017, n. 1162 e sez. I ,16 dicembre 2004, n. 23378, negando efficacia preclusiva della brevità della convivenza matrimoniale al riconoscimento dell’assegno di mantenimento. Semmai, la brevità della durata del matrimonio potrà incidere ai fini della determinazione della misura dell’assegno.

[11] Con riguardo alla domanda di addebito, la Corte di legittimità conferma che la mera violazione dei doveri coniugali posti dall’art 143 c.c. a carico dei coniugi non può fondare la pronuncia di addebito, essendo, al contrario necessario accertare che tale violazione abbia in concreto assunto efficacia causale nella determinazione della crisi della coppia coniugale, circostanza il cui apprezzamento è rimesso al giudice di merito (in senso conforme, Cass. civ., sez. I, 20 agosto 2014, n. 18074).

[12] Il caso. La signora (omissis) aveva proposto avanti al Tribunale di Padova domanda di separazione nei confronti del signor (omissis), non costituito, di tal che, in sua contumacia, era stata accolta la domanda, senza imporre alcun assegno di mantenimento, stante la condizione di autosufficienza di entrambi i coniugi. Il signor (omissis) aveva proposto appello, rilevando la nullità del procedimento di primo grado, per non esser stato convocato a presenziare all’udienza presidenziale e per non avere ricevuto la notifica dell’ordinanza di fissazione dell’udienza di convocazione avanti al G.I, chiedendo la rimessione della causa davanti al primo giudice. Nel merito, contestava la decisione che aveva accertato l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza fra i coniugi. La Corte d’Appello di Venezia aveva dichiarato la nullità del procedimento di primo grado per la mancata convocazione dell’odierno ricorrente avanti al Presidente: Tuttavia aveva deciso la causa, escludendo ricorressero ipotesi di rimessione al primo giudice. Nel merito, confermata l’intollerabilità della convivenza matrimoniale, imponeva alla signora (omissis) un assegno di mantenimento di € 1.500,00 mensile. Il signor (omissis) è ricorso in Cassazione, con cinque motivi: -con i primi due, sostenendo che la dichiarazione di nullità del procedimento comporta la rimessione al giudice di primo grado; – con il terzo motivo, per mancanza del presupposto e di prova dell’intollerabilità della convivenza, tanto da non potersi dichiarare la separazione coniugale; -con il quarto motivo, una rideterminazione dell’assegno in suo favore nella misura di € 6.000,00 mensile; -con il quinto motivo, la remissione in termini per poter acquisire documentazione sui redditi e sui cespiti patrimoniali relativi alla signora (omissis).

[13] «Il giudice d’appello, esulando il caso da quelli previsti agli art. 353 e ss. cod. proc. civ., deve decidere la causa nel merito, dopo aver dichiarato la nullità del procedimento di primo grado ed aver consentito le attività alla stessa impedite (Cass. Civ.  sez. I, n. 26361/2011 e Cass. Civ. n. 8713/2015)».

[14] «……ben potendo la frattura dipendere dalla condizione di disaffezione e distacco di una sola delle parti, verificabile in base a fatti obiettivi, come la presentazione stessa del ricorso ed il successivo comportamento processuale… dovendosi ritenere, in tali evenienze, venuto meno quel principio del consenso».

[15] La sentenza Cass. civ. 16 maggio 2017 n. 12196, d’altro canto, seppur precedente alla sentenza S.U. 2108, aveva ben evidenziato la profonda differenza che intercorre tra il dovere di assistenza materiale fra i coniugi nell’ambito della separazione personale e gli obblighi correlati alla c.d. solidarietà post-coniugale nel divorzio. Nel primo caso, infatti, il rapporto coniugale non viene meno, determinandosi soltanto una sospensione dei doveri di natura personale, mentre permangono gli aspetti di natura patrimoniale, in particolare nell’ipotesi di non addebitabilità della separazione stessa, «pur assumendo forme confacenti alla nuova situazione». I doveri di assistenza materiale, poi, si traducono nell’attribuzione di un assegno di mantenimento a favore del coniuge che versi in una situazione economica svantaggiata e che, con i propri redditi, non sia in grado di conservare un tenore di vita analogo a quello offerto dalle potenzialità economiche della vita matrimoniale. Secondo la Suprema Corte e il consolidato orientamento dei Giudici di legittimità, l’art. 156 c.c., con la dicitura “redditi adeguati”, ha inteso riferirsi al tenore di vita consentito dalle possibilità dei coniugi, richiedendosi, in assenza della addebitabilità della separazione, un’ulteriore verifica tesa ad accertare se i mezzi economici, di cui dispone il coniuge richiedente l’assegno di mantenimento, gli consentano di conservare o meno tale tenore di vita.

[16] Filippo Danovi, «Assegno divorzile: l’inadeguatezza dei mezzi supera il matrimonio breve e senza rinunce», in “Famiglia e diritto”, n. 6/2019.

Informazioni sull'autore

Stefania Tonini