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Dalla prescrizione del reato alla imprescrittibilità del processo – Storia di una riforma contestata

Le ragioni che hanno portato la disciplina della prescrizione del reato al centro del più recente dibattito penalistico sono molteplici.

Da un lato, si tratta certamente del riflesso conseguente alle molte riforme, spesso foriere di polemiche anche politiche, che si sono susseguite nell’arco degli ultimi tre lustri. Dall’altro, tuttavia, si tratta, anche di effetto derivato dell’anomala trasfigurazione della ratio originaria di questo istituto, forgiato nell’ottica di operare quale misura temporale della punibilità e, di fatto, via via forzato a fungere quale misura temporale del processo.

Entrambi gli aspetti meritano una pur sintetica precisazione.

Con la pubblicazione della recentissima legge 9 gennaio 2019, n. 3, meglio nota alle cronache quale “legge spazza-corrotti”, la disciplina penale della prescrizione è stata fatta oggetto di alcune modifiche di limitato tenore sul piano dei contenuti, ma di portata radicale nella prospettiva degli effetti applicativi. Al momento, peraltro, si tratta di effetti solo ipotetici: a questo riguardo, infatti, va ricordato subito che, in base all’art. 1, co. 2 della legge stessa, tutte le modifiche introdotte entreranno in vigore solo il 1° gennaio 2020.

Le modifiche sono state previste all’art. 1, lett. d), e), f) della legge n. 3/2019, ed hanno inciso sugli artt. 158, 159 e 160 del codice penale, intervenendo principalmente sui termini di decorrenza e di computo della prescrizione:

  • con riferimento alla decorrenza del termine iniziale è stato modificato l’art. 158 nella sola parte relativa alla disciplina prevista per il c.d. reato continuato, ripristinando la regola (a suo tempo abbandonata con la riforma introdotta dalla c.d. legge “Cirielli” n. 251/2005), che fissa il c.d. dies a quo con la cessazione della continuazione: in questo caso, quindi, viene rimessa al giudice la possibilità di posticipare gli effetti di decorrenza della prescrizione in ragione del giudizio che potrà essere in concreto effettuato sulla riconoscibilità del momento conclusivo del vincolo disciplinato dall’art. 81 cpv. c.p.;
  • con riferimento ai criteri di computo del termine finale si è, invece, intervenuti sugli art. 159 e 160 c.p., stabilendo che, ferme le cause di sospensione previste al primo comma dell’art. 159, «il corso della prescrizione rimane altresì sospeso dalla pronunzia della sentenza di primo grado o del decreto di condanna fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o dell’irrevocabilità del decreto di condanna»: in questo modo, pertanto, pur dando spazio, formalmente, ad un effetto solo sospensivo della prescrizione, di fatto, il meccanismo introdotto dalla riforma ne determina una sorta di vera e propria inefficacia (così, in sostanza, anticipando il c.d. dies ad quem) a partire dalla conclusione del giudizio di primo grado, ovvero, quando consentito, dalla semplice emissione del decreto di condanna, nel qual caso l’inefficacia della prescrizione viene addirittura fatta valere ancor prima dell’inizio del processo di primo grado.

Gli effetti in malam partem della riforma sono evidenti ed è certo per questo motivo che, ancorché non sia stata prevista alcuna norma transitoria e ferma la già segnalata posticipazione dell’entrata in vigore al 1° gennaio 2020, appare comunque fondato ritenere che le nuove disposizioni potranno trovare applicazione solo in relazione a reati commessi dopo quest’ultima data: questo, in linea con quanto riaffermato dalla Corte costituzionale nell’ambito della controversa vicenda “Taricco” (v. ordinanza n. 24/2017 e sentenza n. 115/2018) ed in conformità con il riconosciuto assoggettamento delle norme sulla prescrizione penale al principio costituzionale di irretroattività stabilito dall’art. 25, comma 2, Cost. Già oggi non mancano tuttavia opinioni di tenore parzialmente diverso, che non escludono la possibilità di considerare applicabile la nuova disciplina anche ai fatti commessi subito dopo l’entrata in vigore della l. n. 3/2019 e, quindi, già prima dell’entrata in vigore delle disposizioni relative alla prescrizione del reato (1° gennaio 2020), trattandosi sicuramente di normativa più sfavorevole, ma già oggi prevedibile nella sua astratta applicabilità futura (Gatta). Non ritengo, tuttavia, di poter aderire a questa interpretazione, in quanto l’art. 25, comma 2, della Costituzione vieta comunque qualunque applicazione retroattiva in malam partem rispetto a fatti commessi prima dell’entrata in vigore della norma di volta in volta considerata.

Come accennato, la riforma del 2019 non è che l’ultimo passaggio di una riconfigurazione normativa della disciplina sulla prescrizione, che già aveva trovato spazio in occasione della c.d. “Riforma Orlando” (legge 23 giugno 2017, n. 103), con la quale erano stati introdotti nell’art. 159 c.p. due eventuali e successivi periodi di sospensione del corso della prescrizione, ciascuno per un tempo non superiore a un anno e sei mesi, rispettivamente conseguenti alla condanna in primo e/o in secondo grado. Evidente è tuttavia la diversa portata della più recente modifica: con la riforma del 2017 si era sostanzialmente introdotto una sorta di generico prolungamento di tre anni del termine di prescrizione, ma con effetto suscettibile di caducazione ex post nel caso in cui la pronuncia di condanna determinante l’effetto sospensivo non risultasse confermata nel grado successivo; con la legge n. 3 del 2019, invece, ferma l’abrogazione della disciplina introdotta dalla legge Orlando a decorrere dal 1° gennaio 2020, l’effetto della prescrizione viene radicalmente cancellato a partire dalla sentenza di primo grado, ovvero, come detto, dalla semplice emissione del decreto di condanna.

Tanto la “riforma Orlando”, quanto quella della legge del 2019, sono state emanate con il dichiarato intento di ridurre il numero dei procedimenti penali definiti con la declaratoria della prescrizione del reato nella fase successiva al giudizio di primo grado; entrambe queste riforme sono, inoltre, state pensate in prospettiva di correzione di effetti così asseritamente ricollegati alle innovazioni a suo tempo introdotte dalla c.d. “legge Cirielli” del 2005, allorquando, come è noto, la disciplina della prescrizione fu modificata mediante l’abbandono della originaria distinzione tra reati riferibili a fasce di diversa gravità e la previsione di termini prescrizionali corrispondenti al massimo della pena edittale (con il solo limite minimo generico di sei anni per i delitti e di quattro anni per le contravvenzioni) e la parziale riduzione degli effetti conseguenti alle cause c.d. interruttive.

Ora, se da un lato è innegabile che quest’ultima riforma abbia comportato una tendenziale accelerazione dei termini di prescrizione (dati statistici riferiscono di percentuali pari all’1% in Cassazione; al 19% in primo grado e di circa il 18% in grado di appello), dall’altro è stato altresì confermato da ricerche empiriche, che le cause principali della lentezza dei procedimenti vanno individuate in situazioni di carenze organizzative degli uffici giudiziari, con rallentamenti che lasciano spazio ad un massiccio margine di incidenza della prescrizione (pari a circa il 58%) già nella stessa fase delle indagini preliminari. Il dato è importante, in quanto confuta una diffusa tendenza a ricollegare la maggiore dilatazione degli effetti della prescrizione ad atteggiamenti ostracistici e dilatori della difesa.

Se valutata in questa prospettiva, la riforma del 2019 rischia, in verità, di favorire, prima ancora che di contenere, la complessiva durata dei processi. È infatti evidente che, una volta venuto meno lo stimolo implicitamente sotteso alla decorrenza dei termini di prescrizione, la durata dei processi rischia di prolungarsi sine die (non a caso, nei commenti alla riforma del 2019, già è stato denunciato una sorta di paradossale effetto di “ergastolo processuale”), con riflessi potenzialmente negativi anche nei confronti delle stesse vittime del reato, che vedrebbero così prolungati i termini di concreto e definitivo riconoscimento di eventuali diritti risarcitori.

Ed è proprio su questi possibili effetti che, da più parti, sono stati sollevati dubbi sulla legittimità costituzionale della nuova disciplina. Da un lato, proprio con riferimento al fondamento sostanziale della prescrizione che, oltre a dare spazio alla più ridotta percezione di disvalore che il decorrere del tempo determina nella valutazione sociale del reato (c.d. “effetto dell’oblio”), si riconosce ancorato allo stesso principio di personalità della responsabilità penale (ex art. 27, comma 1, Cost.) e, quindi, alla necessità di evitare che il condannato sia persona già profondamente diversa da quella che si macchiò di una responsabilità penale accertata nel processo solo molto tempo dopo. Dall’altro, anche in relazione a principi di rilievo più prettamente processuale, con primaria considerazione della presunzione di innocenza (ex art. 27, comma 2, Cost.), del diritto di difesa (ex art. 24, comma 1, Cost.) e, soprattutto, del principio di ragionevole durata del processo, oggi previsto sia all’art. 111, co. 2 Cost., sia all’art. 6 Cedu.

Come è evidente, nessuna questione di legittimità costituzionale potrà mai essere sollevata fino a quando la nuova disciplina non troverà concreta applicazione. Allo stato, pertanto, considerati i termini di entrata in vigore delle nuove regole, si tratta di dubbi di legittimità apprezzabili solo in un’ottica di mera valutazione prospettica ed astratta della nuova legge.

Nel contempo, si tratta comunque di aspetti che, se più attentamente valutati, consentono comunque di meglio cogliere la vera causa del problema di fondo.

Il fondamento storico dell’istituto della prescrizione ha certamente una valenza di tipo sostanziale, che, come detto, ne valorizza la funzione (oggi anche per le ragioni costituzionali già indicate) quale strumento di misura temporale della punibilità. Nello stesso tempo, la previsione di termini massimi per la punibilità di determinati reati ha certamente anche riflessi di tipo processuale, principalmente fondati, come rilevato, sulla parallela possibilità di operare anche in una funzione di stimolo processuale. Si tratta, tuttavia, di riflessi, che nella disciplina tradizionale dell’istituto assumono un rilievo prettamente accessorio e secondario, e che non sono altrimenti valorizzabili anche quale criterio di misura temporale del processo. Bastano pochi esempi per dare conferma di quest’ultimo aspetto: il principio di ragionevole durata del processo vale per tutti i reati, anche per i c.d. reati imprescrittibili (primo fra tutti l’omicidio volontario) e già questo dovrebbe rendere evidente che la disciplina della prescrizione, proprio perché non applicabile a questi reati, non può operare anche quale strumento attuativo di tale precetto costituzionale; ma ancora: anche nel caso di reati per i quali sia previsto un determinato termine di prescrizione, la durata ragionevole del processo è imposta e deve essere apprezzata senza alcuna possibilità di differenziare la disciplina a seconda che il processo sia iniziato poco dopo il tempus commissi delicti, ovvero con molto ritardo, financo in prossimità del termine massimo di prescrizione.

Anche e soprattutto per queste ragioni, nel quadro del dibattito degli ultimi anni si è delineata la posizione di chi ha segnalato l’esigenza di sciogliere i nodi di ambiguità ed ambivalenza, che ancora connotano la considerazione funzionale dell’istituto della prescrizione, favorendo il ricorso ad una riforma che porti a distinguere la disciplina sostanziale della prescrizione, intesa quale causa di estinzione (e quindi di non punibilità) del reato, da quella di rilievo prettamente processuale, intesa quale causa di estinzione del processo (ovvero quale causa sopravvenuta di improcedibilità). Secondo questo modello di nuova disciplina sarebbe così possibile dare spazio alla previsione di termini di prescrizione del reato, che non potrebbero più trovare applicazione qualora il processo dovesse iniziare prima della loro scadenza; mentre, successivamente, si attiverebbe lo spazio applicativo previsto per la nuova disciplina sulla prescrizione del processo, con la fissazione di termini massimi per la durata delle singole fasi processuali.

A tutt’oggi, l’opzione per questa più razionale e coerente riforma della disciplina della prescrizione non ha però ancora trovato alcun riscontro a livello legislativo. Anche con la recente riforma del 2019 (che certo si pone in linea di piena continuità con quanto era stato previsto anche dalla riforma Orlando del 2017) si persevera nella logica di utilizzare la disciplina sostanziale della prescrizione anche quale strumento per accelerare i processi. Una scelta, a mio sommesso avviso, fortemente opinabile, essendo del tutto evidente che, cancellando ogni effetto alla prescrizione già a partire dalla sentenza di primo grado, i processi non saranno solo per questo più veloci e la durata complessiva del processo rischierà solo di proiettarsi verso orizzonti temporali del tutto incompatibili con quel limite di necessaria ragionevolezza, che, ad oggi, rimane baluardo del tutto inosservato della nostra Costituzione.

Prof. Avv. Alessandro Melchionda

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Alessandro Melchionda