Tra il serio e il faceto

Il mobbing

Sono impegnata a scrivere e sono piuttosto concentrata, per cui rispondo al telefono distrattamente, con gli occhi fissi sullo schermo del p.c.

Avvocato! Sono il Signor G.B., disturbo?”.

Cazzo, cazzo, cazzo! Ma perché non mi ricordo mai di salvare il suo nome in rubrica?

Nel corso delle precedenti telefonate ho già esaurito tutti gli espedienti possibili: la linea telefonica che cade, “Non sento niente!”, la chiamata repentina in udienza…

Cosa mi invento adesso? Non c’è tempo!

Meglio afferrare il toro per le corna, affrontare gli spettri, non nascondere la testa sotto la sabbia…

Rispondo.

Signor G.B., salve! Mi dicapure. Però la avverto che tra poco ho un appuntamento, non posso rimanere a lungo al telefono”.

L’avvertenza è assolutamente inutile perché il sig. G.B., lieto e quasi incredulo di avermi beccata al primo colpo, è già partito con il racconto dell’ultima informazione che non vedeva l’ora di riferirmi.

Dal nostro incontro c’è una grossa novità: il datore di lavoro ha richiesto la visita medico fiscale!

Avvocato, adesso non ci sono dubbi: questo è mobbing!”.

O, per meglio dire, l’ultima, inconfutabile prova del mobbing spudoratamente agìto nei suoi confronti dal datore di lavoro che segue, nell’ordine: avergli cambiato la collocazione lavorativa per un venerdì al mese, mettendolo di turno al pomeriggio, anziché alla mattina; non avere accolto la sua richiesta di inserire l’opzione piatto unico vegan nel menu aziendale; avergli formalizzato una contestazione di addebito “solamente perché ho detto alla capo reparto che è una pazza isterica. Ma è la verità, lo sanno tutti!”; aver disposto in suo favore una settimana di ferie ad agosto e non avergli approvato la terza settimana di giugno.

Ciascuna di queste circostanze mi è stata raccontata, con dovizia di particolari e considerazioni non richieste, durante un buon numero di conversazioni telefoniche ed un incontro di persona.

Un solo incontro che non avrebbe avuto alcun seguito, se non fosse stato per l’astuzia con cui il sig. G.B. è riuscito a blandire la mia solitamente avveduta segretaria Bianca, telefonando in studio e ottenendo addirittura il mio numero di cellulare.

Bianca, perfettamente addestrata a trattare telefonicamente con clienti, colleghi, promoterse familiari (ebbene sì, a volte c’è da scansare anche le madri!), in quella occasione, e chissà per quale sfortunata combinazione di eventi, si è fatta infinocchiare dal sig. G.B. che sosteneva di aver perso il biglietto da visita con il mio numero cellulare… Ahinoi, è andata proprio così.

Se non fosse fuori luogo come espressione, si potrebbe parlare di banalità del male!

Ebbene, nonostante l’eccitazione del sig. G.B., riesco incredibilmente a tagliare corto con questa telefonata, facendo presente, per l’ennesima volta, che potrà chiamarmi quando avrà qualche elemento in più a dimostrazione dell’intento “chiaramente” vessatorio del datore di lavoro, oltre alla permanenza delle ali di pollo nel menu della mensa aziendale.

Anche se, in realtà, so bene che il sig. G.B. non ha alcuna intenzione di mollare la presa, perché il filo diretto con l’avvocato soddisfa il suo profondo bisogno di essere ascoltato e, in qualche modo, accudito.

Difatti, quando si dice che lo strumento dell’avvocato è il diritto, si omette di precisare che quello strumento, talvolta, va accantonato in favore di una diversa e più laboriosa pratica, che è la psicoterapia.

Torno al mio p.c. e al mio atto in scadenza. Devo ritrovare la concentrazione che ho perso, accidenti al sig. G.B.!

Rileggo l’ultimo periodo e ritrovo il filo. Quel filo che mi accompagnerà, fortunatamente, per il resto del pomeriggio, fino alla sera. Esattamente fino a quando, soddisfatta del lavoro svolto, in pace con me stessa e con la mia esigente coscienza, seleziono e punto la crocetta in alto a destra, chiudendo il file.

Posso rilassarmi, me lo merito.

Faccio un giretto sul network più socializzante del mondo.

Ebbene, sapete di chi è quella faccia nascosta dietro il nome di “GiBi”, che mi chiede l’amicizia?

Certo che lo sapete, e lo so anch’io.

Mi affretto a chiudere la finestra delle richieste di amicizia come se il mouse mi scottasse tra le dita. Via di qui, meglio allontanarsi.

Arrivata a casa lascio cadere in terra la borsa, recupero occhiali da vista e cellulare e accendo la radio.

Come sempre rimetto in carica il telefono, controllo il display e leggo: “Avvocato mi scusi il disturbo, ma non mi ha detto quando possiamo risentirci.”.

Il fatto di non avere il numero in rubrica non mi impedisce di riconoscere il tipico approccio del sig. G.B. che, con la tenacia che lo contraddistingue, mi ricorda di ricordarmi di lui, non senza preventivamente scusarsi del disturbo.

Chiaramente non posso accondiscendere alla modalità di comunicazione tramite messaggio, per di più alle otto di sera, per cui non gli rispondo e tiro dritto per la mia serata.

Da lì a qualche giorno non accadrà più nulla, se non l’arrivo di una brevissima e-mail con la quale il sig. G.B. si rammarica di non avermi più sentita e, augurandosi che io stia bene, mi lascia, ancora una volta, il suo numero di cellulare, dove potrò trovarlo in qualsiasi momento.

Io non ho nessuna necessità di sentirlo, né alcuna voglia di vederlo. Peraltro, l’augurio riguardante la mia salute è un po’ inquietante, meglio non pensarci.

Può bastare, questo?

Certo che no, visto che qualche giovedì dopo, mentre sono nel pieno di un pomeriggio di appuntamenti, ad un certo punto Bianca mi chiama al telefono, annunciandomi che è arrivato il sig. G.B., senza appuntamento, e avrebbe bisogno di parlarmi.

Non ci posso credere…

Salto su dalla sedia, spalanco la porta del mio studio, attraverso il corridoio e arrivo in sala d’aspetto dove il sig. G.B., per nulla scosso dal mio impeto, mi porge graziosamente un piccolo vassoio di praline al cioccolato.

Mi trovavo da queste parti e sono passato per sentire se ci sono novità…”.

Cosa posso io, di fronte a tale, disarmante sfrontatezza, se non constatare, desolatamente: “Sig. G.B., adesso non ci sono dubbi: questo è mobbing…” (espressione che, di certo, gli è più familiare di stalking…).

Caterina Burgisano

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