Tra il serio e il faceto

L’affaire Bruneri – Canella

Il romanzo del Colonnello Chabert parla del ritorno di un soldato creduto morto in battaglia, dichiarato legalmente morto, che invece dopo qualche anno misteriosamente riappare, e vuole riprendere il suo posto. In società, in famiglia accanto alla moglie (che nel frattempo si è risposata e ha avuto due figli), nel possesso del suo patrimonio. E che, per farlo, si presenta ad un famoso avvocato, e gli affida le sue ragioni.

Sembra un caso ai confini della realtà, romanzesco appunto. A noi, che apparteniamo ad una generazione fortunata (la più fortunata da 500 anni a questa parte, secondo la tesi di un letterato,) che non abbiamo visto nel nostro Paese neppure una guerra, il caso sembra incredibile. E invece casi del genere sono successi davvero. Uno di questi casi è capitato nell’Italia del primo dopoguerra. E probabilmente tutti ne hanno sentito parlare. Perché, anche se risale a quasi cento anni fa, ha dato ispirazione nientemeno che a una commedia di Pirandello[1], a un romanzo di Leonardo Sciascia[2], ad un caso giudiziario finito due volte in Cassazione, ad almeno una dozzina di libri, a due film[3] e sceneggiati televisivi[4].

Si tratta del caso Bruneri-Canella meglio conosciuto come il caso dello smemorato di Collegno (così si intitolava il film, con Totò).

Riassumo la vicenda in breve.

Dunque, siamo negli anni venti. La prima guerra mondiale (la Grande Guerra) è finita da pochi anni, con il suo pesantissimo carico di lutti, di morti, di feriti. E di “dispersi”: cioè di persone – prevalentemente soldati – di cui non si è saputo più niente.

Sulla Domenica del Corriere, vengono spesso pubblicati (sotto la rubrica “Chi l’ha visto”) fotografie con appelli di famiglie che cercano tracce o notizie dei loro cari “dispersi”.

Il giorno 6 febbraio 1927 viene pubblicata la foto segnaletica di un distinto signore barbuto, di profilo, accompagnata dalla seguente dicitura: Ricoverato il giorno 10 marzo 1926 nel manicomio di Torino (casa Collegno). Nulla egli è in condizione di dire sul proprio nome, sul paese d’origine, sulla professione. Parla correntemente italiano. Si rileva (sic) persona colta e distinta dell’apparente età di anni 45”.

Un anno prima (il 10 marzo 1926) era infatti avvenuto che i gendarmi avevano arrestato uno sconosciuto, male in arnese, mentre cercava di rubare un vaso di bronzo al cimitero israelitico. Lo sconosciuto era stato portato in Questura, dove dopo una iniziale reticenza aveva cominciato a dare in ismanie, a dire frasi sconnesse, aveva tentato di buttarsi dalle scale, tanto che era stato portato al manicomio (che era appunto a Collegno). E qui si era evidentemente trovato bene, perché si era contenuto tranquillamente a lungo, dimostrando anche di saper parlare e di avere una certa cultura. Così il direttore del manicomio, vuoi perché effettivamente incuriosito, vuoi per la preoccupazione di dover accudire a tempo indeterminato una persona che non mostrava alcun desiderio di andarsene, aveva preso la iniziativa di rivolgersi alla rubrica “Chi l’ha visto”. Che nell’occasione fu intitolata “Chi lo conosce?”, con una giusta attenzione alla terminologia: perché in effetti “chi l’ha visto?” si riferisce alla ricerca di persone scomparse; come del resto avviene nella trasmissione televisiva dello stesso nome che tutti conosciamo. Ma qui la persona in carne e ossa c’è; solo non si sa chi sia.

Il giornale arriva a Verona, nella casa di una rispettabile famiglia borghese, la famiglia Canella. Il prof. Giulio Canella, un letterato andato volontario in guerra, era stato dato per disperso in Macedonia fin dal 25 dicembre 1916, dopo un sanguinoso scontro nel quale però nessuno dei pochi superstiti l’aveva visto cadere. La somiglianza dello sconosciuto della foto con il congiunto scomparso dieci anni prima induce il fratello del prof. Canella ad andare a Collegno, dove incontra lo smemorato. Non lo riconosce; così come del resto lo smemorato, che tale resta. Gli rimane però qualche dubbio; che viene rinfocolato da una lettera un po’ “furba” che lo smemorato gli scrive qualche giorno dopo l’incontro. Altri conoscenti dei Canella vanno a vedere lo smemorato; gli mostrano delle fotografie; lo smemorato non se le ricorda, ma dice di sentire una emozione. È forte in tutti loro il desiderio che lo smemorato sia proprio il prof. Canella. E così, tornano dichiarando di aver riconosciuto il prof. Canella.

Viene organizzato infine l’incontro con la sposa (o vedova, fino ad allora ritenuta tale). Il crescendo di aspettative e di speranze è ricostruito da Sciascia, che dalla   vicenda ha tratto romanzo breve che sembra una Cronaca italiana, e che certo sarebbe piaciuto a Stendhal. Dopo una serie di esitazioni e un piccolo colpo di scena, la moglie lo riconosce e lo abbraccia.

Lo smemorato esce dunque dal manicomio, affidato alla moglie con la quale si reca sul lago, a Desenzano, luogo ove i due sposi erano andati in viaggio di nozze, per iniziare a ricostruire la loro vita, e la loro memoria comune. Per dirla con Sciascia, per costruire il loro “teatro della memoria”.

La vicenda nel frattempo è su tutti i giornali. Troppe famiglie hanno avuto caduti e dispersi in guerra, per non appassionarsi ad un caso che dimostra che ci può essere ancora, la speranza.

Ma proprio la pubblicità del caso è probabilmente l’origine di quel che segue. Perché alla polizia giunge una segnalazione anonima che dice lo smemorato non è affatto il prof. Canella, ma un ricercato, il tipografo Mario Bruneri, scomparso da casa dopo aver abbandonato la moglie e un figlio piccolo, inseguito da creditori e senza fissa dimora, già colpito da due condanna in attesa di espiazione.

Lo smemorato viene arrestato. Ma lui nega di essere Bruneri. Ne nasce un incidente di esecuzione penale. L’autorità penale svolge accertamenti, ascolta testimoni, fa indagini; e alla fine conclude che non vi è prova che lo smemorato sia il tipografo Bruneri.

Lo smemorato esce così dal carcere, e può trasferirsi a Verona a casa Canella, iniziando (o ricominciando) la sua vita coniugale. Nel corso della quale, lo anticipiamo, nasceranno tre figli.

Ma la moglie del tipografo Bruneri non accetta questa conclusione, che lei ritiene un imbroglio. Forse per orgoglio ferito, forse per ragioni ulteriori che non conosciamo, inizia una causa civile al Tribunale di Torino, nella quale conviene in giudizio “la persona già ricoverata col n. 44170 nel manicomio di Collegno”, un avvocato suo curatore speciale, ed il P.M.: per sentire accertare che il convenuto altri non è che suo marito Mario Bruneri, e che a lui spetta lo status di cui agli atti di nascita e di matrimonio conseguenti.

Molti sono gli indizi che fanno pnsare che lo smemorato sia proprio Bruneri. Il quale era stato arrestato un paio di volte, in precedenza; gli erano state rilevate le impronte digitali, che risultano coincidere con quelle dello smemorato. Anche se allora la prova “dattiloscopica” non era riconosciuta probante come oggi, l’elemento probatorio è pesante. Sia il Tribunale che la Corte d’Appello di Torino si convincono che lo smemorato non è Canella, ma è Bruneri; e accolgono la domanda.

Non finisce qui. Lo smemorato, provvisoriamente Canella, ricorre per Cassazione. La sentenza d’appello viene cassata, perché la Cassazione la giudica affetta da un vizio formale, e cioè perché non ha ammesso le prove contrarie richieste dal ricorrente, senza adeguatamente motivare perciò tali prove fossero inconcludenti o inutili.

La causa viene rimessa a Firenze, in sede di rinvio. Ma la Corte d’Appello di Firenze con sentenza 1 maggio 1931 (pubblicata integralmente in Giur. It. 1931, I, 2, 387 a 438) conferma il giudizio di Torino. Lo sconosciuto è Mario Bruneri.

Si torna in Cassazione per la seconda volta. Lo smemorato ha una équipe di difensori di tutto rispetto: fra i quali, oltre al gerarca Farinacci, c’è il prof. Carnelutti, la cui arringa in Cassazione si può tuttora leggere nel volume edito dal CNF nella collana I discorsi dell’avvocatura.[5]

L’esito è tutt’altro che scontato, e la difesa ha qualche fondata aspettativa. Anche perché la Corte di Firenze sembra essersi “ribellata” alla Cassazione. Nella precedente sentenza, la Suprema Corte aveva cassato per la mancata ammissione delle prove contrarie della difesa. La prova contraria non è stata ammessa neppure in sede di rinvio: anche se i giudici fiorentini hanno ampiamente argomentato e motivato sulla inammissibilità delle prove contrarie dedotte.

Oltre a questo argomento, formale ma certamente di peso, la arringa di Carnelutti solleva tutta una serie di argomenti di diritto processuale che hanno un loro interesse ancora oggi.

Dice Carnelutti: il codice di procedura disciplina minutamente gli strumenti processuali per il controllo della verità di una scrittura (disconoscimento, riconoscimento, querela di falso); ma non si occupa degli strumenti per controllare la identità di una persona. Può essere oggetto di un giudizio civile la semplice identificazione di uno sconosciuto, svincolata dai presupposti che regolano una comune procedura di accertamento? No: secondo Carnelutti l’oggetto di un giudizio non può essere che l’accertamento di un rapporto giuridico. Gli attori possono chiedere in giudizio che sia accertato il loro rapporto parentale, null’altro. Dimostrando beninteso di averne interesse. Quindi essi possono al più chiedere che sia accertato che il convenuto n. 44170 di matricola del Manicomio di Collegno sia o non sia il marito o il fratello. Non possono invece chiedere che si accerti se è o non è Giulio Canella, perché non può essere questo il compito del processo. Il ragionamento ha come conseguenza di cercare di spostare sugli attori l’onere della prova; con la conseguenza che in caso di dubbio o di prova mancata deve conseguire il rigetto della domanda.

Segue poi un esame nel merito della vicenda. Secondo Carnelutti, dalla comparazione delle fotografie del prof. Canella, delle testimonianze, dalla ispezione (se fosse stata ammessa), dalla ispezione psichica, dai ricordi dello sconosciuto, dalla grafia, dall’accento, dalla conoscenza del latino, della storia, della musica, della filosofia, dalla non conoscenza del tedesco, dallo stile della scrittura si sarebbe dovuto concludere che lo sconosciuto non poteva essere Bruneri.

Poiché la causa era importante, abbiamo la possibilità di disporre della tesi contrapposta, e cioè del testo della requisitoria del Procuratore Generale Silvio Longhi. Una vera e propria arringa, che è pubblicata integralmente in Giur. It., 1932, I, 1, 89-102.

È una requisitoria pacata, concreta, a mio parere più efficace di quella un po’ troppo aulica di Carnelutti. Nella quale il P.G. professa un grande rispetto per signora Canella, e per la sua posizione. Così esordisce il P.G.:

“La Corte è in presenza di una causa di eccezionale carattere. Guardano ad essa non solamente coloro che vi sono direttamente interessati ma tutto un mondo di persone (…). La maggior parte di questo pubblico, ignaro dei misteri eleusini dei nostri processi, crede che la Corte sia chiamata a dire, con riesame a fondo, se lo sconosciuto “è o non è quel desso”. Non sa che il nostro compito è ben più limitato, per le ragioni stesse delle funzioni di questa Corte; non sa che a noi non spetta di riesaminare le prove di un nuovo diretto convincimento, ma solo di controllarne dall’esterno la legalità, prescindendo da ogni intrinseco convincimento. Per queste considerazioni, chiedo venia se oggi in questa causa sarò, contro il mio costume, alquanto più diffuso, in guisa da sfiorare in qualche modo, e pur senza uscire dai confini, anche il merito. Molte opinioni sono errate perché si ignorano gli elementi del giudizio, o perché gli elementi noti sono mal noti.”

E ancora nella premessa, il P.G. accenna con misura al nodo centrale della questione, cioè al fatto assai curioso che la moglie e la famiglia Canella abbiano accolto lo sconosciuto e continuino a difenderlo. Non li attacca, il P.G., dice anzi di capirli:

“Molti credono, perché si crede facilmente a ciò che si desidera. Bisogna riconoscere che la tesi Canella anche attraverso la diffidenza, suscita viva simpatia. Io stesso avrei desiderato di poter concludere per questa, se il raziocinio me l’avesse consentito. Ma non posso”. E aggiunge che “lealtà vuole si dica che la convinzione dell’aspettante (cioè, della moglie che attendeva di riconoscere il marito) ebbe origini pure”.

E dopo questa premessa sobria e senza dubbio abile il P.G. si dà a controbattere, sempre con garbo, le censure mosse dal ricorrente.

Non è questa la sede per esaminarle una per una; se il lettore è invogliato ad approfondirle nel dettaglio, è sufficiente che ne legga il testo sulla Giurisprudenza Italiana.

Basti, per concludere, dire che la Corte si divise esattamente a metà: sette per la cassazione, sette per il rigetto, con il Presidente D’Amelio che alla fine fece pendere la bilancia per il rigetto definitivo.

Così termina la vicenda giudiziaria, ma non il caso di vita. Perché lo sconosciuto/riconosciuto Bruneri, andò in carcere a scontare la sua residua pena, poi tornò in seno alla famiglia Canella, assieme alla quale poi emigrò in Brasile ove i Canella avevano interessi economici. E qui, lontano dal clamore e sceso dalla ribalta della attenzione pubblica, lo sconosciuto è rimasto con la moglie fino alla morte, sempre sostenendo di essere il prof. Giulio Canella.

 


 

Questo è l’iter giudiziale. Ma in effetti, di che parla il caso dello smemorato di Collegno?

Parla della memoria, concetto cruciale in diritto non meno che nella vita. Di come la si costruisca, la si perde, la si riacquista o si cerca di ritrovarla. E del come la memoria si fa elemento di prova nel processo.

Tema affascinante, tanto che il caso Canella ispirò, mentre non era ancora concluso (nel 1930), Pirandello a scrivere la commedia Come tu mi vuoi. Protagonista della commedia è l’Ignota, una donna bellissima che fa vita di bohème a Berlino, ove viene riconosciuta da un investigatore, che dice essere la moglie di un facoltoso italiano scomparso dopo un incendio nella sua casa. Lei non si ricorda niente. Ma gli altri la riconoscono, vogliono che sia lei.

Pirandello mette al centro della sua opera non tanto il fatto curioso, ma l’ignota che cerca la memoria che ha perduto e cerca se stessa. E indaga gli inganni della memoria.

Cinquant’anni dopo Sciascia, prendendo proprio le mosse da Pirandello, intitola il suo libro Il teatro della memoria perché, dice, la memoria è come una rappresentazione teatrale, un sistema di luoghi, di immagini, di azioni, di parole atte a suscitare nella memoria altri luoghi, altre immagini, altre azioni, altre parole: in continua proliferazione e associazione.

In fondo, il teatro della memoria assomiglia un poco ai meccanismi del sogno nel quale, su una base di verità, di ricordo, si costruisce una scena nuova e diversa.

È un po’ come quando – da adulti – si sogna la casa della propria infanzia, che in genere non esiste più. E nel sogno è di nuovo vera, ma anche falsa al tempo stesso. Perché, per dirla con Stefano Benni, la si sogna fatta di pezzi diversi. C’è un pezzo della casa dei nonni, poi un corridoio che è quello della casa di campagna, poi un salotto che non è proprio come lo ricordavi ma quasi, e dalla finestra si vede il mare come lo vedevi da bambino nella casa delle vacanze. E se scendi la scala non arrivi in cantina, ma in una grande cucina dove c’è tua madre che sfaccenda e ti sorride.

Ed è un po’ così che procede la memoria, e più il ricordo è lontano più è a rischio di deformazione.

Per questo gli storici prediligono le memorie scritte a caldo, rispetto a quelle più complete ma meno sincere, scritte da vecchi a ricordo e lode del buon tempo passato.

Ecco allora che questo processo – che ha il suo tema sulla smemoratezza, e sul riconoscimento dello smemorato, e sulla memoria, – ci dice come la memoria umana sia un mezzo fragile, da maneggiare con cura. Tanti testimoni erano sicuri di avere riconosciuto il prof. Canella; la moglie – il soggetto più interessante – è rimasta incrollabile fino alla morte nel riconoscimento. Non c’è prove contrarie che tengono, quando si vuol credere: così fa dire Pirandello all’Ignota.

Per concludere. Come finirebbe adesso il processo?

Adesso c’è il DNA. L’esame del DNA è stato in effetti condotto, nel 2014, su due discendenti dei Canella che vi si sono prestati. Il risultato, quantunque non comunicato ufficialmente, sembra avere escluso definitivamente che lo smemorato fosse il prof. Canella.

Ma il tema posto da Pirandello – non c’è prove contrarie che tengano quando si vuol credere – è sempre attuale. E infatti ecco le campagne contro i vaccini, contro le cure chemioterapiche, contro le scie chimiche. È al fondo la prova della saggezza con la quale il legislatore aveva contemplato la fattispecie penalistica dell’abuso della credulità popolare.

È vero anche che al giorno d’oggi sul tema della memoria è nata anche una problematica insospettabile 90 anni fa, quella del diritto all’oblio, o alla cancellazione della memoria, della memoria che ferisce.

E questo sarebbe un argomento interessantissimo perché – a partire dalla semplice constatazione della incancellabilità di qualsiasi dato finito in rete –  induce ad affrontare sotto una nuova luce il problema del teatro della memoria – sempre più affollato. Ci vorrebbe Pirandello anche per questo. Ma non è l’argomento di questa sera. Per questa sera, ci basti ricordare che una grande e saggia attrice, Audrey Hepburn, secondo la quale bisogna augurarsi nella vita “una salute di ferro, e una memoria corta”.

 

Giuliano Berti Arnoaldi

 

[1] Come tu mi vuoi, commedia in tre atti rappresentata per la prima volta  al Teatro Filodrammatici di Milano il 18 febbraio 1930.

[2] Leonardo Sciascia, Il teatro della memoria, Torino, Einaudi, 1981.

[3] Lo smemorato di Collegno, di Sergio Corbucci, con Totò (1962), e Uno scandalo perbene, di Pasquale Festa Campanile (1984).

[4] La RAI mandò in onda nell’agosto 1970 due puntate delle serie Processi a porte aperte, dedicati al caso. RaiUno ha prodotto una miniserie nel 2009 sulla vicenda: Lo smemorato di Collegno, diretto da Maurizio Zaccaro. Il personaggio ha anche ispirato una parodia radiofonica di Fiorello, che aveva creato il personaggio dello Smemorato di Cologno, consistente nella imitazione di Silvio Berlusconi che perdeva la memoria tutte le volte che veniva pronunciata qualche parola che aveva a che fare con i suoi avversari politici.

[5] Francesco Carnelutti, Vita di avvocato – Mio fratello Daniele – In difesa di uno sconosciuto, Milano, Giuffrè Editore 2006, a cura di Franco Cipriani.

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Giuliano Berti Arnoaldi