Tra il serio e il faceto

Avvocati appassionati e avvocati mancati: Balzac e gli altri

“Signore,” gli chiese Boucard, “volete farci il favore di darci il vostro nome, affinché il principale sappia se…”
“Chabert”
“Forse il Colonnello morto a Eylau?”…( una voce fuori campo, con tono canzonatorio)
“Lui in persona signore”, rispose il brav’uomo con assoluta semplicità e se ne andò”.

Basterebbe questo breve dialogo per far venire la voglia di fare un film di questo romanzo breve di Honoré de Balzac.

Così, mentre tornavo in treno da un’udienza fatta a Padova e leggevo questo libro, sono andata a vedere se ci fosse un film con quel titolo.

La risposta fu che di film ce n’erano due, entrambi francesi, il primo del 1943, ovviamente introvabile, neppure un’immagine, il secondo relativamente recente, del 1993, con Gerard Depardieu e Fanny Ardant, non certo i primi attori capitati a tiro, che è quello che vedremo stasera.

Ho cercato il DVD, l’ho trovato, e lo abbiamo visto durante una serata presso la Fondazione Forense.

Ovviamente l’ho proposto perché parla di un caso soprattutto umano, ma anche legale, come molte, quasi tutte, le storie di cui noi ci occupiamo.

Poi anche perché parla di uno studio di avvocati all’epoca di Balzac, e del loro lavoro.

Uno studio legale fatto di galoppini di tredici o quattordici anni che si occupano di consegnare documenti importanti e anche bigliettini amorosi, giovani di studio che interrompono la scrittura per guardare fuori dalla finestra e scherzare, mangiare, chiacchierare… E, a capo di tutti, rispettato ma non temuto, un bravo avvocato, entusiasta della sua professione e della funzione che svolge.

Balzac avrebbe potuto essere un nostro collega, ma ha scelto una strada, soprattutto una vita, diverse.

Scrive Stephen Zweig nella lunga biografia di Honoré de Balzac. “L’annuncio improvviso del figlio ventenne di voler diventare scrittore, poeta, comunque creatore, invece che avvocato o notaio, è un colpo di fulmine per la famiglia ignara. Rinunciare a una carriera sicura? Un Balzac, un rampollo degli stimatissimi Sallambier, darsi al mestiere sospetto dello scrittore? Dove sono le garanzie, le certezze di un reddito conveniente e tranquillo? Letteratura, poesia… sono lussi che può concedersi un visconte di Chateaubriand, il quale possiede in qualche angolo della Bretagna un bel castello, oppure un signor De Lamartine, o al più anche al figlio del generale Hugo, ma non si convengono certamente a un piccolo borghese”.

Dunque, all’epoca, quella di avvocato o notaio era una professione propria della classe media, consentiva e garantiva una tranquilla agiatezza.

Certo, per noi né la scrittura né l’avvocatura garantiscono tranquillità, la strada della scrittura forse è ancora più ardua, ma il divario fra i due mestieri, da questo punto di vista, si è in gran parte colmato.

Honoré aveva sempre avuto problemi a scuola (indisciplina, scarso rendimento, il collegio in giovane età lo segnò forse per sempre) ma, ci dice sempre Zweig, aveva una memoria prodigiosa, una velocità di lettura non comune e con queste doti è evidente che ottenne facilmente una laurea in giurisprudenza, lasciandosi alle spalle gli anni bui del collegio e del liceo.

Quando si iscrisse all’università, però, venne indotto dai genitori a garantirsi una forma di indipendenza economica, e iniziò a lavorare come scrivano nello studio dell’avvocato Guyonnet de Merville, che lo prese in simpatia,  probabilmente riconoscendo in lui una mente pronta e fervida,  e magari anche l’estro dello scrittore.

A propria volta, Balzac ammirò l’avvocato De Merville, tanto da renderlo eterno  nella figura di Derville, che è l’avvocato che incontriamo  nel romanzo, e nel film.

Dopo un paio d’anni di pratica forense, passò a collaborare con un notaio, ne divenne socio, con somma gioia dei genitori che già lo vedevano ereditare lo studio.

Ma le cose non andarono come i genitori di Honoré avrebbero avuto: conoscere il lavoro del notaio causò il suo definitivo allontanamento dal mondo delle leggi.

Scrive Zweig: “nella primavera del 1819, un bel giorno balza dallo sgabello del notaio e pianta in asso le polverose pratiche. Ne ha abbastanza e per sempre di una simile esistenza, che non gli ha ancora dato un giorno felice. Risoluto, alza per la prima volta la testa di fronte alla famiglia e dichiara di colpo che non sarà né avvocato, né notaio né impiegato. Non vuole alcuna professione borghese! È deciso a diventare scrittore e anche a diventare con i suoi futuri capolavori, indipendente, ricco e celebre”.

Non è l’unico, Balzac, a lasciare le leggi per la scrittura: Proust, Kafka e il nostro Buzzati, erano laureati in legge, mi piace pensare che la laurea in legge abbia consentito loro di capire che quella non era la loro strada, che volevano fare altro (anche se poi il mondo delle leggi e dei Tribunali torna spesso nei loro romanzi).

D’altronde, chi è che non ci ha pensato almeno un centinaio di volte?

Ma, tornando a Balzac praticante, troviamo nel Colonnello Chabert (libro e film) la sua esperienza legale e, come giustamente osservava Zweig, la sua ammirazione per il primo avvocato che aveva incontrato, fatto rivivere   nella figura dell’avvocato Derville, instancabile appassionato di legge e di avvocatura, quello che lui non è mai stato.

Il Colonnello Chabert, sempre quello che è morto a Eylau, si presenta al suo studio e, dopo vari tentativi, riesce ad ottenere un appuntamento con l’avvocato, all’una del mattino, quando il nostro collega rientra a casa da una serata mondana (bisogna frequentare la società per avere buoni clienti): a quell’ora, infatti, l’avvocato Derville studia le pratiche, cosa che di giorno non fa perché deve incontrare i clienti, andare in Tribunale, e quando trova il tempo?

Il Colonnello gli spiega il suo caso: credutolo morto, sua moglie ha ereditato tutti i suoi beni, si è risposata con un ambizioso conte e ha avuto due figli.

Ma il Colonnello Chabert non era morto sul campo di battaglia, è tornato e rivorrebbe la sua vita di prima.

La moglie rifiuta qualsiasi contatto con lui, che soffre per le condizioni di estrema indigenza in cui si trova ma soprattutto perché si sente respinto con estrema durezza dalla donna che aveva tanto amato.

L’avvocato, dopo un iniziale diffidenza, presto fugata, si fa carico della questione del Colonnello, gli crede sulla parola.

Consapevole della lotta che dovrà sostenere in Tribunale, la vedova non è un tipo facile (lui la conosceva bene, era sua cliente, unica macchia deontologica in questa figura di paladino della giustizia), Derville si procura anche i documenti che gli serviranno per dimostrare che non si tratta di un’impostura, Chabert è proprio lui.

E nonostante in genere gli avvocati, reali o immaginati, non brillino per generosità, Derville gli dà del denaro, anzi un vero e proprio appannaggio, perché egli possa vivere in modo un po’ più decoroso, in attesa di un accomodamento con la moglie o della soddisfazione delle sue legittime aspettative dinanzi ad un Tribunale.

Balzac ammira questo giovane e instancabile avvocato, ma lo guarda da fuori, non si legge nemmeno un momento di nostalgia per la vita e la professione che ha lasciato: lasciamo fare l’avvocato a chi è portato, sembra dire, e io mi occuperò di quello che a me piace, scrivere e fare affari (che si rivelano tutti rigorosamente sbagliati).

In ogni caso, ogni iniziativa di Balzac, che sia uno scritto o una nuova stamperia, è intrapresa con l’entusiasmo e l’impegno che l’avvocato Derville mette nello studio delle sue pratiche, “piombando in una di quelle meditazioni alle quali si abbandonano i grandi politici nel concepire i loro piani e cercando di indovinare i segreti delle cancellerie dei paesi nemici”.

Così Balzac descrive con ammirazione il lavoro di Derville, serenamente consapevole che non avrebbe mai potuto fare niente di simile nella sua vita.

Probabilmente, invece, sarebbe stato un avvocato di quelli geniali.

Dispiace che non abbia voluto essere dei nostri, ma va capito.

In fondo, è stata una fortuna: leggere Balzac distrae e aiuta noi a tenere lontani, almeno per un po’, gli affanni della professione che ci siamo scelti.

 

Chiara Rigosi

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Chiara Rigosi