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Può esistere una giustizia senza processo?

Il congresso nazionale forense di Rimini, svoltosi il 6-8 ottobre 2016, titolava “Giustizia senza processo”. Un tema che, qualche anno, fa ci avrebbe fatto sorridere, o sobbalzare sulla sedia, ma che, oggi, a fronte delle scelte mirate del legislatore, sta divenendo realtà. Queste scelte vengono da alcuni  interpretate come avversione all’avvocatura, da altri, invece, come nuove opportunità da cogliere. Vi proponiamo un intervento precongressuale del collega Bruno Sazzini per meditare sul tema proposto.

Una giustizia senza processo, nell’attesa palingenetica di un cittadino virtuoso, può esistere ed essere efficace se inserita in un percorso autenticamente riformatore per una ridefinizione condivisa dei confini della giurisdizione pubblica.

Le premesse

Il tema del Congresso Nazionale Forense di Rimini ipotizza come punto d’arrivo della massiccia degiurisdizionalizzazione attuata negli ultimi 15 anni dal legislatore un modello di risoluzione delle controversie anche fuori dal processo pubblico dove l’Avvocatura, emancipata da un ruolo meramente difensionale e con attribuzioni, sia protagonista.

Questo cambiamento epocale è avvenuto senza particolari resistenze da parte suoi enti esponenziali dell’Avvocatura in primis il CNF, in cambio di una maggiore presenza degli avvocati nei nuovi organismi e del riconoscimento di rappresentanza istituzionale e politica della categoria.

Un’Associazione attiva nella politica forense come ANF, però, non può limitarsi a prendere atto dell’ineluttabilità della compressione della giurisdizione pubblica, ma ha il dovere di capire quali possano essere gli scenari futuri, la tenuta costituzionale della tutela (o meno) dei diritti dei cittadini, nonché l’effettività del nuovo ruolo assegnato all’Avvocatura.

Prima di passare al merito del tema congressuale alcune sintetiche considerazioni preliminari per definire il contesto.

La giurisdizione pubblica

Gli artt. 24 e 25 della Costituzione sanciscono il diritto di ciascun cittadino di agire in giudizio, nel riconoscimento di un sistema che garantisca l’accesso ad un meccanismo impersonale e imparziale di soluzione delle controversie.

La Convenzione dei diritti dell’uomo e della libertà fondamentali all’art. 6 afferma gli stessi principi.[1]

Il cittadino rivolgendosi alla giurisdizione pubblica vuole ricevere una giustizia “giusta”, nel senso che, a fronte della difficoltà di definirla come tale, garantisca almeno alcuni standard minimi: arrivare in tempo, in modo prevedibile, comprensibile e risponda a criteri di sostenibilità di insieme.[2]

Condizioni minime che nel sistema giudiziario italiano non si sono mai riscontrate negli ultimi 30 anni, nella sostanziale indifferenza della politica, risvegliatasi nell’ultimo decennio solo per le pressioni degli Organismi Europei che hanno individuato nel sistema giudiziario una delle criticità più rilevanti per il rilancio dell’economia per il riequilibrio del deficit pubblico.

Le ragioni del collasso del sistema giudiziario sono note agli operatori, salva l’accentuazione di una maggior responsabilità che ciascun soggetto (avvocati, magistrati, apparati amministrativi, ecc.)[3] attribuisce agli altri.

Le soluzioni alla crisi

Una prima soluzione, la più immediata, presuppone la centralità del sistema giudiziario nella vita civile e nel coacervo di relazioni sociali, economiche e politiche che costituiscono il tessuto di un paese, così da riconquistare la fiducia della società, garantendo il rispetto degli standard sopra richiamati e inducendo comportamenti virtuosi nell’accesso.

La sua attuazione necessita di un vero e proprio “piano Marshall[4] con investimenti economici per interventi strutturali interessanti la macchina amministrativa e la magistratura, accompagnata dalla riforma dell’Amministrazione per ottimizzare l’organizzazione su parametri di valutazione dell’efficienza e di riconoscimento delle professionalità.

Il rischio, però, come spesso accade in Italia, è che un investimento economico elevato si traduca solo in aumenti di retribuzione per il personale piuttosto che in nuove strutture o finanziamenti per l’ammodernamento dell’Amministrazione.[5]

L’allocazione di maggiori risorse per riammodernare la Giustizia è, poi, altamente improbabile nell’attuale contingenza economica, con un debito pubblico altissimo e i vincoli di bilancio esistenti.[6]

Un altro percorso di contrasto parziale al collasso giudiziario nasce dall’impegno degli operatori, soprattutto della parte più sensibile della magistratura e dell’avvocatura, che ha individuato nella ricerca dell’efficienza del sistema l’effettività della tutela dei diritti dei cittadini.

Le “best practices” e gli Osservatori, ormai proliferati su tutto il territorio nazionale, suppliscono in chiave volontaristica e locale alle difficoltà oggettive per le carenze strutturali e di budget, ma non solo, perché arrivano anche a definire modelli processuali e amministrativi condivisi.

Il limite in questo approccio è quasi congenito, trattandosi di iniziative limitate e prospettate da soggetti che sono anche parte del problema,[7] in un eccesso di autoreferenzialità.

Il legislatore, invece, nel tentativo di migliorare gli indicatori mondiali nell’efficienza del sistema giuridico che collocano l’Italia molto in basso[8] ha scelto altre strade: dapprima con l’immissione massiccia di magistratura onoraria a bassa retribuzione e (mediamente) di scarsa qualità e poi con un mix di interventi ad ampio raggio che si possono catalogare in due

filoni: le riforme che mettono mano alle condizioni di accesso e hanno come target la domanda di giustizia, distinte da quelle che invece toccano le condizioni strutturali dell’offerta, come la riforma dell’ordinamento giudiziario o della procedura civile e penale.[9] I provvedimenti di questi anni si sono mossi in entrambe le direzioni: dall’aumento del Contributo Unificato, alla limitazione delle impugnazioni, al maggior uso dei riti sommari, al riassetto della geografia giudiziaria, ecc.

La risoluzione alternativa delle controversie

La vera novità introdotta del legislatore è stata, però, quella di affiancare alle restrizioni della domanda e dell’offerta di giustizia la valorizzazione di istituti di ADR, come la mediazione e la negoziazione assistita, non tanto per la fiducia in questi istituti (sconosciuti nella cultura giuridica italiana) quanto per un fine esclusivamente deflattivo.

Il complesso dei sistemi alternativi di risoluzione è diventato il cuore della degiurisdizionalizzazione, anche a rischio di alimentare, soprattutto verso l’opinione pubblica, l’equivoco di una equivalenza inesistente tra i due modelli: infatti, risolvere i conflitti in via processuale con applicazione delle norme di diritto sostanziale e processuale è altro rispetto alla loro composizione su base volontaristica, negoziale e utilitaristica.

La risposta principale alla crisi è stata, di fatto, l’autolimitazione dello Stato con devoluzione ai privati della facoltà di risoluzione di parte delle controversie, senza che questa scelta sia stata accompagnata da alcuna riflessione sull’impatto delle soluzioni adottate.[10]

L’imposizione autoritaria di un percorso alternativo a quello pubblico di risoluzione delle controversie, in chiave meramente deflattiva, rischia, però, di comprimere la potenzialità di questi istituti e di accentuare la diffidenza degli operatori e dei cittadini.

I modelli di risoluzione alternativa alle controversie possono avere maggior senso se precedute da un’analisi sul “costo dei diritti”, per dirla con il celebre saggio di Holmes e Sunstein[11], così da modulare un’offerta per un cittadino reso sempre più consapevole con strumenti di legal empowerment, ossia di informazione – formazione dell’utente che si qualifica come un potenziale soggetto parte di una controversia[12].

L’atteggiamento dell’Avvocatura di fronte agli ADR è fortemente condizionato dal substrato culturale dei singoli attori: da una parte coloro che hanno verso questi strumenti un atteggiamento di chiusura[13], dall’altro chi li ritiene una possibilità di evoluzione della professione, non più ancorata alla dimensione difensionale, ma soggetto attivo nella composizione degli interessi.[14]

Sono due impostazioni non facilmente conciliabili anche perché, sullo sfondo, rimane una grossa incognita: capire se, e fino a quando, il ruolo preminente oggi riconosciuto all’Avvocato nella mediaconciliazione e, soprattutto, nella negoziazione assistita potrà essere mantenuto rispetto alle altre professioni.

Conclusione: esiste una giustizia senza processo?

La prima osservazione riguarda Il titolo del Congresso Nazionale Forense di Rimini: è una formulazione fuorviante e mal posta, inquinata da un accento retorico che richiama un principio etico.

In realtà oggetto del dibattito è se la degiurisdizionalizzazione, nell’ampiezza sopra indicata, migliori, attenui o limiti le risposte alla domanda di giustizia; se il complesso delle misure adottate porti un reale recupero di efficienza complessiva; se da una minore tutela dei diritti a vantaggio della composizione degli interessi (si perdoni la sintesi) si abbia un riflesso indiretto, e di che tipo, sul sistema paese, cioè sull’insieme delle relazioni sociali, politiche, economiche ed interpersonali.

Per rispondere alla domanda, soprattutto l’ultima, utilizziamo uno schema elaborato da G. Sartori[15] denominato “calcolo dei mezzi” per una valutazione prognostica dell’impatto delle riforme sul corpo sociale.

Lo schema si fonda su quattro verifiche: a) se i mezzi (in senso lato) siano sufficienti; b) se i mezzi siano idonei al fine perseguito; c) se altri fini non vengano disturbati (effetti collaterali); d) se i mezzi oltrepassino il fine e così diventino controproducenti.

Se lo scopo del massiccio intervento legislativo era il recupero di efficienza del sistema giustizia le prime due risposte sono semplici: i mezzi non sono sufficienti (e probabilmente non lo saranno mai) né idonei. Più complesse le altre due risposte: che vi siano effetti non voluti è abbastanza palese: le soluzioni fin qui adottate rischiano di accentuare una differenziazione delle tutele per stato sociale, censo e aree geografiche, tale da ledere il principio di uguaglianza. La tendenza ad una giustizia informale (o sommaria), poi, comprime il diritto di difesa ed amplia la discrezionalità del giudice, solo per citare alcuni effetti collaterali.[16]

L’effetto controproducente peggiore, però, è una ulteriore caduta del livello di attenzione della società civile, nella conclamata rinuncia dello Stato di parte della sua giurisdizione in un contesto degradato come quello italiano.

La degiurisdizionalizzazione non apporta nulla, o per lo meno poco, ad una maggiore efficienza del sistema giudiziario e permane “l’insufficienza grave dell’intera macchina giuridica che produce effetti che si ripercuotono sull’intero vivere civile, impediscono e rallentano gli investimenti, disabituano a quel severo minimo di governo che è necessario in ogni società, inducono a comportamenti illegali[17].

Una giustizia senza processo, nell’attesa palingenetica di un cittadino virtuoso, può esistere ed essere efficace se inserita in percorso autenticamente riformatore per una ridefinizione condivisa dei confini della giurisdizione pubblica.

L’auspicio è che a Rimini l’Avvocatura manifesti la volontà di farsi promotrice dell’avvio di questo pro- getto che coinvolga tutti gli operatori e i soggetti istituzionali ed economici, partendo dalla necessità di collegare preventivamente i diritti tutelabili a circuiti di giurisdizione togata e/o onoraria, stabilendo le priorità di interesse pubblico[18] e meglio indirizzare l’utente verso forme alternative o complementari di risoluzione delle controversie, supportate da ampi benefit.

La (ri)costruzione di un sistema giudiziario integrato per scelta e non per necessità, rafforzato dall’ulteriore obbiettivo di (in)formare i cittadini con servizi mirati. L’Avvocatura può assumere questo ruolo da protagonista se supera la nostalgia del passato, se rifiuta l’approccio alle riforme in chiave esclusivamente economica a danno della tutela dei diritti, se sarà capace di ripensarsi: così contribuirà non solo alla propria sopravvivenza, ma, sia concessa la presunzione, alla salvaguardia del livello di democrazia del Paese.[19]

[1] “Ogni persona ha il diritto che la sua causa sia esaminata equa- mente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente ed imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile e sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti”

[2] Così Piana, “Uguale per tutti? Giustizia e cittadini in Italia”, Il Mulino.

[3] Una disamina onesta della genesi della crisi del processo civile: D’Ascola “Sulla Giustizia Civile” in Micromega 7/2014.

[4] B. Capponi, Salviamo la Giustizia, Novecento Editore pag. 142

[5] Significativa la lettura dei dati CEPEJ: il budget allocato al sistema giustizia in Italia rappresenta l’1,5% (in media con i paesi europei) del budget complessivo, e di questi il 60% circa è assorbito dalla macchina amministrativa, per la quasi totalità in emolumenti.

[6] C. Cottarelli “il Macigno, perché il debito pubblico ci schiaccia”. Feltrinelli.

[7] “Far si che una organizzazione pubblica sia veramente indirizzata al cliente e orientata al servizio è veramente come insegnare a ballare ad un elefante”. Alberech “I servizi del Cliente interno ed esterno”, ISEDI.

[8] I dati IADB governance data set collocano l’Italia al di sotto della media dei Paesi “ad alto reddito”. Il World Bank Governance and corruption data colloca l’Italia, rispetto ai Paesi OCSE nel percentile più basso (62,2 rispetto al 90,05 della Francia, al 92,04 della Germania). Il Doing Business della Banca assegna all’Italia un posto basso nella scala mondiale.

[9] D. Piana, op. citata pag. 7.

[10] “Già oggi i sistemi giustizia tendono o, meglio, per sopravvivere sono costretti preliminarmente ad autolimitarsi, anzi a sgravarsi del carico appoggiandosi al settore privato… per farlo premorire… mors tua vita mea. A tal fine costruendo ponti d’oro a negoziazioni, mediazioni, patteggiamenti (negli USA circa il 90 per cento delle cause civili muoiono per transazione prima dell’inizio e quasi altrettanto accade con i patteggiamenti in quelle penali). E come? Mediante via di fuga deflattive ed edificate su di una delega agli amministrati, basta che finisca e si arrivi al dunque. Governanti e controllori che delegano la soluzione a governati e controllati” Tony “Il team dell’ingiusto processo”. Foglio 4/9/2016

[11] Holmes e Sunstein “Il costo del diritto”, il Mulino, 2000.

[12] “Differenziare i servizi sulla base di un’analisi segmentata dalla domanda a cittadini con caratteristiche sociali ed economiche diverse possono essere utili diversi sistemi di comparazione e orientamento nel mondo della giustizia” Piana, op. cit.

[13] “È triste che l’Avvocatura abbia visto nelle degiurisdizionalizzazione un’occasione di reddito e di lavoro senza troppe preoccupazioni di come i diritti dei cittadini sarebbero Triste un’Avvocatura che, per mandare avanti la baracca, eccetti di spogliarsi della toga per indossare impropriamente quelle del giudice, in uno scambio improprio dei ruoli”
Capponi op. cit.

[14] “Gli avvocati dovranno imparare che non serve rappresentare il cliente per “vincere” la cancellazione o la conciliazione o la mediazione, occorre invece il massimo apporto di collaborazione creatività e cooperazione e la ridefinizione di una identità professionale costruttiva che includa le abilità di pianificazione e soluzione del problema”. E. Signori in Mediazione e Professioni in Rivista degli Avvocati Italiani 1/1999 pag. 27.

[15] Sartori “La democrazia in 30 lezioni”, Mondadori.

[16] Leonardo “Prospettive della giurisdizione” in Rivista degli Avvocati… 1/99 pag. 34.

[17] Cassese, Corsera.

[18] Le riforme della giustizia devono essere inquadrate in un complesso di i interventi integrati che restituiscano alle altre istituzioni, ossia a quelle istituzioni che non sono di natura giudiziaria e che sono deputate a risolvere conflitti in altri modi. Con la negoziazione, la deliberazione, l’aggregazione, una compenetrazione di interessi e valori – e a rispondere rispetto a criteri di responsabilità politica di legittimazione sociale, di tradizione, di funzionalità omeostatica”. D. Piana, op. cit., come esempio di un possibile processo.

[19] “Considerare i diritti alla stregua di onerosi beni pubblici non significa far si che spietati analisti delle politiche pubbliche, in combutta con squadre di ragionieri, stabiliscano unilateralmente di quali diritti i cittadini debbano godere e di quali no. Al contrario, l’inevitabilità del calcolo dei costi e dei benefici rimanda alla necessità del controllo democratico e anche alla virtù civile, cioè alla necessità di un attento esame da parte del contribuente della distribuzione delle somme dei bilanci ai fini della tutela e della applicazione concreta dei diritti” Holmes – Sunstein, op.cit.

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Bruno Sazzini