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La giustizia dei mercanti: il Tribunale della Mercanzia di Bologna

La Mercanzia bolognese sorse nel 1381 come tribunale dei mercanti ed operò fino al 1802 quando fu abolita da Napoleone, che ne decise la sostituzione con le Camere di Commercio, dotate inizialmente anche di poteri giurisdizionali (quella bolognese venne creata nel 1811).

In questo lungo arco temporale la curia mercantile, regolata da appositi statuti (i primi datano 1400), funzionò come magistratura impegnata su due fronti: da un lato, coordinare ed omogeneizzare le dinamiche operative all’interno delle singole corporazioni cittadine di arti e mestieri e dall’altro, predisporre ed attuare una procedura più snella e più rapida nei giudizi in materia di ius mercatorum.

È opportuno sottolineare come a Bologna la creazione di uno specifico Foro dei mercanti non sia stato il portato di regimi esterni o superiori, ma sia scaturita «dalle aspirazioni autonome della locale borghesia, cui spettava un ruolo di primo piano nella nuova organizzazione istituzionale cittadina».

Fin dalle origini la Mercanzia apparve come una corte giudiziaria operante nel rispetto di due fondamentali principi, che ne connotarono il rito: l’imparzialità dell’organo giudicante e la celerità dei giudizi. Si cercò di assicurare la prima attraverso la previsione di complesse procedure di nomina e la minuziosa fissazione dei requisiti per ricoprire le cariche in seno al Foro dei mercanti; quanto alla celerità delle decisioni, essa fu garantita dal ricorso al rito sommario. Un rito che, eliminando alcune delle formalità del processo romano-canonico, consentiva di terminare il giudizio in un lasso di tempo contenuto, senza tuttavia pregiudicare l’accertamento della verità e l’aspettativa di una sentenza giusta.

Il procedimento sommario, improntato ai criteri dell’oralità, della discrezionalità e dell’aequitas, avrebbe dovuto costituire una valida alternativa alla giurisdizione comunale, in cui, al contrario, prevalevano scrittura, solennità delle forme e stretta osservanza dei rituali, con conseguente inevitabile dilatarsi dei tempi. Due differenti procedure rispecchianti, secondo un modello molto essenziale, l’emblematica contrapposizione tra la dinamica degli affari, espressa dal ceto mercantile, e la più tradizionale dimensione economica dell’aristocrazia fondiaria, che affidava la tutela dei propri interessi di status alla giustizia ordinaria. L’esercizio della funzione giudicante in seno alla Mercanzia spettò ad un organo collegiale, presieduto da un giudice e composto da dodici consoli − successivamente ridotti a sei −, in rappresentanza di altrettante arti (cambiatori, mercanti, beccai, strazzaroli, speziali, merciai, setaioli, orefici, fabbri, bombasari, lavoratori della lana gentile, callegari).

La corte, che si riuniva solo un paio di giorni alla settimana (tre dal 1436), fu titolare di una giurisdizione speciale, applicata – val bene ripeterlo – tramite un rito abbreviato, e competente ratione materiae per le sole questioni di ius mercatorum, affiancandosi così alle magistrature cittadine già esistenti e titolari della giurisdizione ordinaria.

Il sistema giudiziario bolognese di Antico Regime al fine di determinare l’assegnazione di una causa seguì in primo luogo il criterio oggettivo e solo secondariamente quello soggettivo. Per adire la curia mercantile ciò che rilevava era la natura della controversia: si richiedeva, infatti, che occasione del contendere fossero merci, beni o fatti comunque concernenti l’esercizio di un’attività commerciale, cambiaria od artigiana (ad es. mancati pagamenti di merci, scorrettezze nella tenuta delle scritture contabili, fallimenti e falsificazioni della documentazione) e che l’attività si svolgesse nell’ambito del Comune. Per ciò che riguarda le parti, invece, era sufficiente che una sola di esse, ed indifferente quale, appartenesse ad una delle corporazioni cittadine.

La giurisdizione della corte mercantesca, certamente intesa a favorire gli scambi commerciali attraverso decisioni rapide, era esclusiva, pertanto le cause che vi rientravano e quelle ad esse collegate non potevano esserle in alcun modo sottratte. A tal fine si dispose la nullità di processi, atti e sentenze compiuti da altri giudici in violazione di tale disposizione, la cui ratio è da ricercarsi nel desiderio di evitare che su una stessa controversia fossero chiamati a decidere più magistrati, con l’inevitabile rallentamento della giustizia dei mercanti, ispirata al contrario alla massima celerità.

Il Foro non poteva vantare, invece, alcuna competenza in ordine a quelle liti ove una delle parti risultasse un usuraio. Si tratta di una disposizione che incontrò l’avallo della dottrina, secondo la quale a tale categoria di persone era inibita la difesa di diritto, e che ben rispose all’esigenza di arginare un malcostume dilagante, già sanzionato dal diritto canonico.

In via generale i primi statuti della Mercanzia sancirono l’obbligo per le parti di stare in giudizio personalmente, vietando l’istituto della rappresentanza processuale, anche se con alcune eccezioni, mentre quelli successivi (del 1436) l’ammisero purché i procuratori fossero muniti di legittimo mandato. Prescrizione questa indicativa di un trend favorevole ad un aumento delle cautele procedurali, ma che finì per intralciare la celerità del giudizio.

Con frequenza la normativa mercantesca avverte il giudice di procedere «sumariamente, de piano, senza strepito e figura de piado». Una formula, ricorrente nella maggior parte delle normative statutarie quattrocentesche e nel diritto canonico dal quale è mutuata, che riunisce in sé espressioni aventi significati differenti ma caratterizzanti il medesimo rito, come rilevato dalla dottrina processualistica già nel XIV secolo.

Il rito sommario rappresentò un tipo di giudizio equitativo e discrezionale, che si proponeva di snellire le formalità procedurali richieste dal processo ordinario senza tuttavia sacrificare la verità e la giustizia.

Il ruolo giocato dal giudice apparve in questo rito di primaria importanza, giustificando la necessità che questi fosse un giurista dotato di particolari qualità. Gli si richiese, infatti, di essere «scientifico», virtuoso e, in un primo momento, anche forestiero, a garanzia di imparzialità. Si sottolinea quindi che mentre per i consoli era richiesta solo un’oggettiva professionalità, il supremo magistrato doveva essere in possesso della scientia identificantesi nella laurea in ius civile conseguita in uno dei più autorevoli Studia quattrocenteschi (Bologna, Perugia, Padova e Pavia, cui si aggiunse nel 1436 Siena).

Nel 1468 il giudizio super partes, che doveva essere garantito dall’estraneità del magistrato al contesto cittadino, venne fortemente limitato da una provvisione che riservò la carica ad un docente bolognese. Una modifica, questa, gravida di conseguenze, effetto verosimilmente di una maggiore partecipazione dei giuristi alla vita economica fin da quando, nel 1432, gli stessi avevano ottenuto il controllo della Gabella Grossa, preposta alla riscossione dei dazi sulle merci. Risulta di tutta evidenza l’interesse dei mercanti a gratificare i doctores dello Studio con il prestigioso incarico, che fino a quel momento era stato una prerogativa dei loro colleghi forestieri, e pertanto non dovette esulare dallo spirito della riforma l’opportunità di blandirli e di ‘addolcirne’ la politica daziaria che tanto incideva sulle entrate dei mercatores.

Si trattò di una previsione di estremo rilievo politico che rifletteva la progressiva perdita, da parte della Mercanzia, di quella dimensione sovra-cittadina che anche in termini di esportabilità ed imparzialità delle decisioni giudiziarie era garantita dalla presenza di un giudice forestiero. Un provvedimento che può essere agevolmente inscritto nel più generale fenomeno di chiusura municipalistica che connotò gli uffici bolognesi tra il XIV ed il XV secolo e che vide, sul diverso versante dello Studium, la nomina dei lettori ristretta ai soli cittadini.

Al giudice fu imposto il divieto di tenere corsi accademici per l’intera durata del suo ufficio con il dichiarato scopo di far sì che egli attendesse alle mansioni spettantigli in seno al Foro dei mercanti in maniera sollecita e puntuale. Al divieto si accompagnò la previsione, in caso di violazione, di una pena rigorosa quale la perdita di entrambi i salari, sia quello per l’attività di docente sia quello per l’attività giudiziaria.

Nel XVI secolo il iudex, personalmente responsabile di errori, negligenze ed eccessive dilatazioni dei procedimenti, venne affiancato da tre mercanti di buona fama, con il compito di giudicarne l’operato ogni sei mesi ed al termine del mandato. Fu, inoltre, prevista la possibilità di ricusarlo in ogni caso in cui fosse sospetto ad una delle parti, sostituendolo con due tra i consoli non in carica. Entrambi i provvedimenti sono rivelatori dei troppi abusi nei quali erano incorsi i giudici e della conseguente necessità di sindacare efficacemente il loro operato.

Un raffronto tra il rito sommario e quello seguito dal Foro dei mercanti bolognese evidenzia però come quest’ultimo tradisse in parte le esigenze ad esso sottese, appesantendo le procedure con la richiesta di una serie di garanzie che, se da un lato si preoccupavano di inserire una fitta rete di tutele in favore delle parti, vanificavano, dall’altro, in buona misura le conclamate istanze di celerità e sommarietà che si era programmaticamente inteso soddisfare.

Nonostante il procedimento di cognizione, diretto ad accertare l’esistenza del credito lamentato dall’attore, non presentasse rilevanti differenze rispetto a quello applicato nei tribunali ordinari, si ottenne, tuttavia, una riduzione delle formalità e l’abbreviazione dei termini in modo da giungere in tempi accelerati ad una decisione sul merito. Non si richiese la presentazione di un libello formale, bastando, per iniziare la causa, la semplice citazione orale, notificata dai messi e trascritta nei registri dei notai della Mercanzia; ad essa si accompagnò il pagamento di una somma di denaro quale garanzia della fondatezza della pretesa dell’attore, che, successivamente, faceva mettere agli atti una petizione. Si tratta di prescrizione finalizzata a scongiurare eventuali liti temerarie.

Se le parti comparivano alla prima udienza, il giudice, dopo averle ascoltate entrambe, poteva discrezionalmente scegliere se intimare al convenuto di rispondere alla petizione dell’attore in tale sede, immediatamente ed oralmente, oppure se assegnargli un breve termine per replicarvi.

Il convenuto poteva assumere posizioni differenti. Qualora confessasse di essere debitore dell’attore, il magistrato si limitava ad assegnargli un termine breve (compreso tra cinque e dieci giorni) per adempiere; se, viceversa, egli negasse ogni addebito, si apriva un procedimento di cognizione da svolgersi summarie; infine, se non replicava alla domanda o rifiutava di farlo, per procedere a esecuzione nei suoi confronti, come nei confronti di chi confessava il proprio debito, l’attore doveva previamente prestare il giuramento di calunnia ed il giuramento de veritate, ossia affermare che il convenuto era veramente suo debitore per la somma od il bene che egli domandava (anche in questa prescrizione è evidente la volontà di evitare liti temerarie).

Nell’unico caso in cui si apriva un vero e proprio giudizio di cognizione dinanzi al Foro – ossia, come si è detto, quando il convenuto compariva e si opponeva alle richieste attoree –, esso doveva svolgersi secondo le procedure e i termini del rito sommario predisposto dagli statuti mercanteschi. Termini che erano molto brevi: tra i quindici e i trenta giorni in proporzione al valore della causa ed il cui mancato rispetto da parte del giudice fu sanzionato con una multa, il pagamento delle spese del giudizio e degli eventuali danni sopportati dall’attore.

Nell’ambito della fase istruttoria il iudex attendeva alla raccolta e valutazione delle prove: testimonianza, giuramento ed, in via residuale, libri mercantili.

Anzitutto furono previsti capitoli attraverso i quali attore e convenuto potevano provare le loro intenzioni. Ciascuno di essi, steso il capitolato, doveva darne copia all’avversario ed al giudice, affinché li esaminasse ed acconsentisse esclusivamente a quelli che riteneva leciti. La parte interessata doveva far citare i testimoni, i quali erano tenuti a comparire dinanzi alla corte, giurare di dire la verità e rendere la propria dichiarazione.

Al fine di consentire alla Mercanzia una conoscenza quanto più possibile approfondita dei fatti su cui era chiamata a pronunciarsi, fu contemplato, accanto alla prova testimoniale, anche l’interrogatorio delle parti. A tale scopo esse dovevano produrre le ‘posizioni’, ciascuna delle quali doveva contenere un solo postulato sul merito della causa, cui la controparte era chiamata di persona a rispondere affermativamente («credo») o negativamente («non credo»), ma solo dopo che il giudice aveva stralciato quelle implicite, impertinenti od oscure. Attore e convenuto prima di rispondere dovevano giurare di non ingannarsi a vicenda e di non agire con intento calunniatorio. Era fissata anche una sanzione pecuniaria per ciascuna ‘posizione’ cui una delle parti rispondesse il falso, sempre che l’altra riuscisse a provarlo.

Occorre sottolineare come i libri mercantili avessero un valore probatorio residuale, per cui vi si poteva far ricorso e produrli in giudizio solo se il fatto controverso non era dimostrabile in altro modo e solo purché ricorressero alcune condizioni: l’autore doveva risiedere o avere risieduto a Bologna al tempo della loro redazione, averli elaborati ed intitolati secondo la forma prescritta dagli statuti ed essere pubblicamente reputato mercante.

La valenza di prova attribuita ai libri commerciali trova la propria giustificazione nel progressivo riconoscimento della fiducia reciproca tra mercanti che faceva venir meno la necessità di ricorrere ad un notaio per attribuire publica fides ai propri atti. Si devono ritenere, infatti, il giuramento alla corporazione e l’onestà del mercator quali presupposti per poter fare affidamento sulle sue scritture.

La riforma del 1436 si segnala per la previsione di una giustizia alternativa ancora più celere: l’arbitrato, mediante il quale si sarebbero dovute risolvere le cause che avevano una qualche risonanza pubblica e quelle che si erano protratte troppo a lungo. Il collegio giudicante, in tali ipotesi, poteva costringere i litiganti ad un «compromesso de rasone et de facto» dinanzi ad arbitri tenuti ad emettere un lodo in termini assai brevi.

La Mercanzia era competente anche in materia criminale nei confronti di chi – purché mercante, banchiere od artigiano bolognese – nella scrittura dei libri mercantili si macchiasse di dolo, commettesse il reato di falso od esperisse una frode. Data la delicatezza e la gravità del fatto contestato, che esulava dalla sfera del diritto privato ed ineriva quella penalistica, il giudizio non veniva sospeso nei giorni festivi e al giudice, qualora lo ritenesse opportuno, fu consentito di disattendere gli statuti, di ricorrere alla tortura e di richiedere l’aiuto delle magistrature comunali. In tali controversie egli doveva sempre decidere dopo aver valutato la qualità del fatto e la condizione delle persone, punendole con una multa e con il bando, cui si aggiunse nel 1436 la prescrizione che i libri fossero bruciati coram populo dinanzi al Foro e, se il giudice ne stabiliva l’utilità, pure che il falsario fosse «vituperato» in città.

Alla curia mercantile competeva, inoltre, una giurisdizione di secondo grado in merito a ricorsi nei confronti delle proprie decisiones. Il principale mezzo di impugnazione fu l’appello, che poteva proporsi sia in forma orale che scritta. Con lo scopo di evitare la temerarietà del giudizio si dispose che l’appellante depositasse, a titolo di garanzia presso l’appellato, una cauzione di importo sufficiente a pagare sia le spese della lite nella quale era risultato soccombente sia quelle dell’appello.

La procedura era assai sintetica, giacché la normativa bolognese si limitò a prevedere che, effettuato il deposito, l’appellante dovesse presentare il ricorso al collegio incaricato entro due giorni. Collegio che nell’istruzione e decisione della causa doveva procedere secondo il rito sommario. Se il provvedimento risultava di conferma, contro di esso non era più possibile ricorrere, mentre se differiva dalla prima istanza era a sua volta impugnabile, ma non poteva essere chiamato a giudicare chi aveva emesso la sentenza d’appello. Dopo l’eventuale seconda impugnazione non era più consentito appellare la decisione in alcun modo. Complessivamente il giudizio di secondo grado e la sua eventuale iterazione non dovevano eccedere i 20 giorni.

Era possibile presentare appello anche contro un lodo arbitrale: giudici, modalità e termini erano gli stessi già descritti per l’impugnazione di una sentenza. Si tratta di una disposizione che merita di essere sottolineata in quanto di norma la decisione di un arbitro, essendo questi privo del potere giurisdizionale, non era appellabile ma soggetta ad altri mezzi di impugnazione.

Accertata la pretesa attorea, non si esauriva la competenza della Mercanzia, spettandole anche il compito di provvedere affinché la stessa fosse pienamente soddisfatta. A tal fine il collegio giudicante era competente a procedere in seguito alla presentazione di un valido titolo esecutivo: scritture mercantili regolarmente tenute, lettere di cambio o sentenze passate in giudicato.

L’esecuzione prevista era esclusivamente quella reale, mentre quella personale, vale a dire il carcere, proibita in generale, era consentita, in via eccezionale, al giudice nei confronti del debitore «sospeto o fugitivo», cioè fallito.

Da un confronto tra gli statuti si evince un’involuzione del rito mercantesco, che, già nel 1436, si complicò, vanificando attraverso una serie di cautele (il ricorso al procuratore, l’aumento degli atti scritti) le premesse di celerità che, secondo la prima normativa, ne avrebbero dovuto costituire la peculiarità e decretare il successo. Sulla sempre maggiore ‘complicazione’ della procedura mercantile dovette in parte influire anche la professionalità del giudice laureato, che certo ben conosceva e forse apprezzava il processo ordinario. Non a caso, parallelamente, fu previsto il ricorso all’arbitrato, ossia – lo si è detto – ad una giustizia ancora più rapida, che meglio rispondeva all’esigenza dei mercatores di una pronta definizione della lite; esigenza che risultava in parte tradita da un rito sommario che si avvicinava sempre più a quello di diritto comune.

La concorrenza con la giurisdizione ordinaria divenne sempre meno vincente nel momento in cui il processo mercantesco tese ad assomigliare sempre più a quello romano-canonico, rendendo forse meno vantaggiosa la scelta di far valere la natura commerciale della lite e quindi adire il Foro dei mercanti anziché i tribunali ordinari.

A conclusione di queste mie riflessioni, mi preme sottolineare come il rito utilizzato dinanzi alla corte mercantesca dovesse garantire quella esigenza di celerità che era e che è propria del mondo economico. A tal fine non si esitò ad imporre rigide e serrate scadenze sia alle parti sia al giudice, sanzionando eventuali ritardi e, dunque, riconoscendo a questo ultimo una responsabilità per colpa.

Un secondo punto da mettere in luce è come già allora uno dei pericoli della giustizia, e ancor più della giustizia dei mercanti, fossero le liti temerarie, per scongiurare le quali si impose all’attore, sia in primo grado che in appello, di depositare una somma di denaro a garanzia della fondatezza del giudizio.

Da ultimo, vorrei evidenziare la preoccupazione dei mercatores nei confronti degli abusi da parte dell’organo giudicante, sia in termini temporali che decisionali. Abusi talvolta riconducibili alla formazione giuridica del giudice, spesso più attento ai cavilli delle leggi che non alle esigenze del mondo economico. Abusi che con una qualche frequenza inficiarono la bontà del rito sommario teorizzato, a differenza di quanto accadde in altre Mercanzie italiane dove la funzione giudiziaria fu riservata ai mercanti. Abusi che si cercò di arginare sottoponendo il iudex al sindacato di mercanti e prevedendo la sua ricusazione.

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Alessia Legnani Annichini