Attività del Consiglio Pareri deontologici e ordinamentali

Compatibilità iscrizione all’albo e qualità di socio in s.r.l. con oggetto sociale consulenza ad enti pubblici – Verbale delibera del 26/4/2017

L’avv. Caio chiede un parere sulla possibilità, per un avvocato, di mantenere l’iscrizione all’Albo assumendo la qualità di socio di società a responsabilità limitata, avente ad oggetto sociale la prestazione di consulenza, anche legale, ad imprese ed enti pubblici. I soci sarebbero professionisti in possesso di laurea in Giurisprudenza o Economia e commercio, non esercenti attività professionali protette e riservate in quanto giuristi d’impresa, ex dirigenti d’azienda e simili.

La richiedente continuerebbe a svolgere la propria attività di avvocato, in ambito giudiziale e per le attività di competenza esclusiva di iscritti, in dievrsa sede e in forma individuale, prestando tuttavia anche la propria opera, di consulenza globale, integrata con le altre professionalità, ai clienti della società di cui diventerebbe socia.

Innanzitutto, è bene ricordare che per giurisprudenza, anche disciplinare, consolidata rivestire la qualità di socio di società di capitali o di società coooperativa non è causa di incompatibilità nell’esercizio della professione forense: “L’art. 3 comma terzo del R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578, convertito, con modificazioni, in legge 22 gennaio 1934 n. 36, che prevede l’incompatibilità dell’esercizio della professione di avvocato o procuratore con impieghi privati retribuiti, anche se consistenti nella prestazione di assistenza o consulenza legale (che non abbia carattere scientifico o letterario), si riferisce alle attività svolte in regime di subordinazione. Tale incompatibilità, pertanto, non è ravvisabile in relazione alla opera di assistenza e consulenza legale, che venga espletata da un avvocato o procuratore in qualità di socio di una cooperativa di produzione e lavoro, qualora difetti il presupposto per la configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato coesistente con il rapporto sociale e cioè, qualora si tratti di prestazioni che, indipendentemente dalla coincidenza con gli scopi sociali, si inseriscano nella comune attività economica, restando così inquadrabili, nell’ambito del rapporto societario, fra gli apporti occorrenti alla realizzazione della causa sociale (nella specie, la S.C., in applicazione dell’enunciato principio, ha confermato la decisione del Consiglio nazionale forense che ha respinto la domanda di iscrizione all’albo di un soggetto che prestava la sua attività nell’ufficio legale di una società cooperativa di produzione e lavoro; il Consiglio lo definiva, infatti, come lavoro subordinato, in quanto la prestazione resa era estranea all’oggetto sociale, per essa era percepita una retribuzione mensile, il dipendente timbrava il cartellino d’ingresso al lavoro, era inquadrato nel settimo livello, percepiva un rimborso forfetario per il lavoro straordinario e dipendeva dall’ufficio servizi della società stessa)” (Cass., sez. un., 12 novembre 1997, n. 11151); “Il professionista che svolga, presso una cooperativa di cui è socio, attività lavorativa non inquadrabile nel rapporto di impiego (che si qualifica essenzialmente per la presenza del vincolo di subordinazione), ha diritto di ottenere l’iscrizione all’Albo degli avvocati, non sussistendo nella fattispecie cause di incompatibilità rilevanti, ai sensi dell’art. 3 della legge professionale, che prevede l’incompatibilità dell’esercizio della professione forense con ogni altro impiego retribuito” (CNF, sentenza del 19 aprile 1991, n. 45). Coerentemente, invece, “Deve escludersi la possibilità di iscrizione nell’albo degli avvocati del socio professionista che presti la sua opera in via esclusiva presso la cooperativa, percependo una retribuzione con corresponsione fissa e mensile. (Nella specie rileva particolarmente la continuità retributiva e la residualità dell’attività legale rispetto agli scopi sociali, circostanze che configurano tale rapporto come di lavoro subordinato)” (CNF, sentenza del 10 ottobre 1996, n. 129).

Il quesito riguarda un ente, normale società di consulenza, la quale fornisce prestazioni professionali a propri clienti, facendo svolgere l’attività richiesta ai propri soci, sulla base delle diverse competenze di ciascuno di essi. Non si tratterebbe di associazione professionale né di esercizio della professione in forma scietaria, ostandovi sia i noti limiti di creazione di entità superindividuali professionali, sia l’espressa volontà della richiedente, che manterrebbe la propria attività professionale individuale affiancandola alla prestazione di consulenza anche attarverso la costituenda società.

È escluso, come si è visto, che ciò cagioni una situazione di incompatibilità all’iscrizione all’albo degli avvocati; ma possono emergere altre problematiche, di natura deontologica.

La più delicata è forse quella concernente l’art. 24 del Codice Deontologico Forense, il quale recita: “1. L’avvocato deve astenersi dal prestare attività professionale quando questa possa determinare un conflitto con gli interessi della parte assistita e del cliente o interferire con lo svolgimento di altro incarico anche non professionale. – 2. L’avvocato nell’esercizio dell’attività professionale deve conservare la propria indipendenza e difendere la propria libertà da pressioni o condizionamenti di ogni genere, anche correlati a interessi riguardanti la propria sfera personale. – 3. Il conflitto di interessi sussiste anche nel caso in cui il nuovo mandato determini la violazione del segreto sulle informazioni fornite da altra parte assistita o cliente, la conoscenza degli affari di una parte possa favorire ingiustamente un’altra parte assistita o cliente, l’adempimento di un precedente mandato limiti l’indipendenza dell’avvocato nello svolgimento del nuovo incarico. – 4. L’avvocato deve comunicare alla parte assistita e al cliente l’esistenza di circostanze impeditive per la prestazione dell’attività richiesta. – 5. Il dovere di astensione sussiste anche se le parti aventi interessi confliggenti si rivolgano ad avvocati che siano partecipi di una stessa società di avvocati o associazione professionale o che esercitino negli stessi locali e collaborino professionalmente in maniera non occasionale”.

Da tenere presente che questo illecito ha implicazioni notevoli, non soltanto sotto il profilo deontologico, ma anche dal punto di vista processuale, visto che – Cass., sez. III, 26 luglio 2012,  n.13204 – l’attività processuale posta in essere da un difensore in conflitto di interessi col proprio assistito è nulla, e il vizio è rilevabile d’ufficio perchè investe la validità della procura, e quindi il diritto di difesa ed il principio del contraddittorio, valori costituzionalmente tutelati.

La segnalazione di questo possibile risvolto nasce dal fatto che, prestare la propria attività professionale in modo – si suppone – continuativo ed abituale attraverso un soggetto, votato per oggetto sociale a rendere consulenze a imprese operanti in un determinato ambito territoriale, potrebbe comportare la conoscenza, da parte del professionista legale, ma anche di coloro che con lui sono soci di quel soggetto, di dati ed elementi che potrebbero avvantaggiare (o danneggiare) un successivo assistito, senza che possa essere invocata la formale distinzione tra cliente della società e cliente privato dell’avvocato, e dunque l’astratta escludibilità del conflitto, che si ricorda può essere anche solo potenziale (e non necessariamente reale e concreto), e che deve essere valutato andando oltre la mera apparenza o “forma” del conflitto stesso.

Altro fronte di problematicità è quello di cuia la disposto dell’art. 37 del Codice Deontologico  Foresne, “Divieto di accaparramento di clientela”, che dispone: “1. L’avvocato non deve acquisire rapporti di clientela a mezzo di agenzie o procacciatori o con modi non conformi a correttezza e decoro. – 2. L’avvocato non deve offrire o corrispondere a colleghi o a terzi provvigioni o altri compensi quale corrispettivo per la presentazione di un cliente o per l’ottenimento di incarichi professionali. – 3. Costituisce infrazione disciplinare l’offerta di omaggi o prestazioni a terzi ovvero la corresponsione o la promessa di vantaggi per ottenere difese o incarichi. – 4. E’ vietato offrire, sia direttamente che per interposta persona, le proprie prestazioni professionali al domicilio degli utenti, nei luoghi di lavoro, di riposo, di svago e, in generale, in luoghi pubblici o aperti al pubblico. – 5. E’ altresì vietato all’avvocato offrire, senza esserne richiesto, una prestazione personalizzata e, cioè, rivolta a una persona determinata per uno specifico affare. – 6. La violazione dei doveri di cui ai commi precedenti comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della censura”.

In base a quanto riferito, sarebbe scongiurata la violazione della norma sotto l’asepetto della confondibilità di sede e ruolo (su cui cfr. Consiglio Nazionale Forense (Pres. f.f. Vermiglio, Rel. Tacchini), sentenza del 29 novembre 2012, n. 170, “Pone in essere un comportamento deontologicamente rilevante l’avvocato che fissi un proprio recapito o la sede della sua attività professionale presso uffici di società, agenzie infortunistiche, agenzie di assicurazioni e servizi, società commerciali, associazioni di mutilati ed invalidi civili e comunque Enti o Associazioni che rappresentino categorie di lavoratori e/o professionisti, dei quali ne utilizzi i locali ricevendo anche clienti, usufruisca delle utenze telefoniche e ne indichi il recapito sulla propria carta intestata. L’incrocio, sia pure saltuario, dell’attività professionale con le attività sindacali, che si concretizzi nella presenza fisica e nell’utilizzo, per fini professionali, dell’intera struttura in cui opera ed agisce l’associazione, è sintomatico di un procacciamento di clientela scorretto perché incanalato attraverso mezzi non consentiti e che, quindi, vanno ritenuti deplorevoli, in violazione dei principi di lealtà, dignità e decoro della professione forense”).

Resta invece il dubbio che la (ipotizzabile) possibilità di acquisire incarichi personali tramite la consulenza e l’attività prestata dalla società di cui si è soci possa integrare quei “modi non conformi a correttezza e decoro” di reperimento di clientela, censurati dall’articolo sopra indicato. Il caso non pare mai essersi presentato in giurispudenza (molto frequente invece la censura dei casi dell’attività svolta a favore di associazioni, agenzie, sindacati, ecc., anche con previsione di prima consulenza gratuita); si consiglia pertanto di non porre in essere comportamenti, quali quelli appena menzionati,  sintomatici di mezzi non corretti di acquisizione di clientela.

Il Consiglio, all’esito, ringrazia il Consigliere avv. Atti per il parere reso che fa proprio nei termini sopra esposti.

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