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Diario della visita alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo

Nei giorni 15 e 16 novembre 2016 si è svolta la visita di alcuni avvocati del foro bolognese alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (abbreviata CEDU o Corte EDU, per differenziare l’acronimo dal CEDU che si usa anche per indicare la Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali), organizzata dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Bologna, in persona del suo valido Presidente che ha raccolto il giusto ringraziamento dei partecipanti, e resa possibile dalla squisita gentilezza del dott. Luigi Dalle Donne, giurista presso la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, grazie anche al lavoro organizzativo e di coordinamento dell’avv. Elena Baroni, componente della Commissione Internazionale del Consiglio dell’Ordine.

La nota caratterizzante del viaggio è stata il cambio continuo di prospettiva, man mano che si lasciava l’Italia e ci si muoveva in una dimensione sempre più internazionale, la conoscenza minima della quale oramai non è più un vezzo o un plus, ma una questione di sopravvivenza professionale.

Partenza alle 4.50 di mattina con il pullman, in cinquanta partecipanti. E la prospettiva è cambiata appena si è entrati in Svizzera e ci si è fermati in autogrill, dove ci si è resi conto che i prezzi sono maggiori, dalle 3 alle 5 volte, rispetto a quelli italiani (viene il sospetto che il reddito dei lavoratori svizzeri, tra cui gli avvocati, sia proporzionalmente più elevato di quelli italiani).

Dopo circa 9 ore di pullman si è arrivati a Strasburgo e la prospettiva è cambiata guardando il cielo. Due le varianti: grigio chiaro e grigio scuro; in entrambe le varianti opzione pioggia disponibile. L’impressione è stata comunque quella di una città decisamente a misura d’uomo e in cui la vita è qualitativamente elevata, come provato dalla presenza di metropolitana di superficie e di piste ciclabili.

Arrivati quindi alla Corte, dove ci ha accolto Luigi Dalle Donne insieme ad altri due giuristi italiani presso la Corte, ci siamo recati in sala convegni. Se un avvocato in Italia qualche anno fa si fosse definito “giurista” presentandosi a un collega avrebbe provocato una certa ilarità; se l’avesse fatto presentandosi ai clienti forse avrebbe rischiato l’apertura di un procedimento disciplinare. Da qualche tempo invece anche da noi è stata istituita la figura del giurista, ad esempio il giurista d’impresa. Il termine “giurista”, quindi, nel linguaggio europeo corrente non richiama solamente il passato, evocando illustri giuristi come Gaio, Ulpiano e altri, ma indica tutte quelle figure altamente professionali che offrono la loro competenza giuridica al servizio di una società o di un ufficio pubblico senza necessariamente partecipare direttamente al giudizio (anzi spesso proprio al fine di evitarlo) e quindi non necessariamente avvocati o giudici. Nel caso dei “nostri” giuristi alla Corte il loro compito, ci hanno riferito, è quello di preparare le relazioni sui ricorsi presentati e di fornire al giudice tutti gli elementi per la decisione. Una sorta di staff del giudice.

Tra l’altro ci hanno detto (la sera a tavola, con l’aiuto di un bicchiere di rosso) che a volte preparano due o tre bozze di sentenza, con risultati anche diametralmente opposti, per vedere sino in fondo l’effetto che fa e poi pensarci sopra qualche giorno. Non male come esercizio e senz’altro meglio che prima decidere e poi motivare.

Ci è stata fatta una breve presentazione della Corte e del contesto in cui è normativamente istituita, cioè la Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali (artt. 19 ss.) e ci è stata fornita una breve documentazione illustrativa tra cui il testo della Convenzione e alcuni avvertimenti per evitare confusioni terminologiche.

La Convenzione è stata firmata (a Roma) il 4 novembre 1950 dagli Stati membri del “Consiglio d’Europa”, da non confondere con i Consigli previsti nel Trattato dell’Unione Europea, di cui sono istituzioni il “Consiglio Europeo” e il “Consigliotout court, a volte definito anche come Consiglio dell’Unione Europea (aiuto!).

Ovviamente la Corte EDU non va confusa (oltre che con la Corte Internazionale de L’Aja, organo dell’ONU) con la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (altra istituzione dell’Unione Europea).

La Corte EDU è l’organo previsto dall’art. 19 della Convenzione per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali con il compito di “assicurare il rispetto degli impegni derivanti alle Alte Parti contraenti dalla presente Convenzione e dai suoi protocolli”.

Alla Corte possono essere devoluti ricorsi da parte di Stati o anche di individui, ma sempre “contro” uno Stato.

Ci sono quindi state illustrate le condizioni di rilevabilità dei ricorsi, che sono indicate all’art. 35 della Convenzione e all’art. 47 del Regolamento della Corte, che costituiscono un primo filtro.

Tra i casi di irricevibilità vi è anche la manifesta infondatezza e qui abbiamo subito imparato una cosa destinata a spegnere un po’ di entusiasmi. Nei casi di irricevibilità ex art. 47 del Regolamento, la Corte può invitare il ricorrente a regolarizzare il ricorso e i documenti allegati (purché non siano decorsi i sei mesi dall’esaurimento dei ricorsi interni, che è il termine per la proposizione del ricorso). Nel caso invece di irricevibilità ex art. 35 (tra cui la manifesta infondatezza), al ricorrente viene solamente comunicata la decisione di irricevibilità (presa da un giudice unico) e non è dato conoscerne la motivazione. E comunque non ci è stato nascosto che il numero di ricorsi è talmente alto (50.000 all’anno; una decina al giorno solo dall’Italia) che occorre un filtro a maglie fitte. Beninteso la motivazione esiste, ma è sintetica e non è comunicata (è comunicata la sola decisione di irricevibilità).

Se si pensa alla complessità del caso la cui discussione avremmo assistito il giorno seguente, bisogna concludere che chi ha esaminato le carte a livello di filtro è stato veramente bravo a capire che meritava di arrivare dinanzi alla Gran Camera.

Per chi volesse comunque fare ricorso alla Corte è indispensabile la consultazione del sito e l’utilizzo delle istruzioni ivi contenute, nonché la redazione del ricorso sull’apposito modulo. Il tutto assicurandosi di verificare che si stia seguendo l’ultima versione aggiornata.

Ove il ricorso non venga dichiarato prima facie irricevibile dal giudice unico, può essere esaminato e deciso da un Comitato, composto di tre giudici, se rientra in una consolidata giurisprudenza, e viene consentito a entrambe le parti di presentare osservazioni scritte. Se il caso viene ritenuto rilevante può essere fissata udienza pubblica che si terrà innanzi alla Camera, composta di sette giudici. Il Comitato e la Camera possono ancora dichiarare il ricorso irricevibile con decisione, oppure emettere la sentenza sul merito. La sentenza diverrà definitiva se entro tre mesi il ricorrente o il Governo non ne avranno chiesto il rinvio alla Gran Camera per una nuova valutazione.

Le decisioni di irricevibilità emesse dal giudice unico, le decisioni e le sentenze emesse dal Comitato e le sentenze emesse dalla Gran Camera sono definitive e non possono essere appellate. Nel caso di sentenza della Camera, invece (come nel caso a cui avremmo assistito il giorno seguente), le parti hanno tre mesi per chiedere il rinvio alla Gran Camera (non impugnazione, ma rinvio del caso); l’opportunità e ammissibilità del rinvio viene valutata da un collegio di cinque giudici: secondo l’art. 43 co. 2 della Convenzione deve trattarsi di una questione che “sollevi gravi problemi di interpretazione o di applicazione della Convenzione o dei suoi Protocolli, o comunque un’importante questione di carattere generale”. Quindi non tutte le questioni arrivano alla Gran Camera: basti pensare che nel 2012 è stata fatta richiesta per 185 casi e solamente 7 sono stati devoluti alla Gran Camera (European Court of Human Right, Annual Report 2012).

Nel caso di accoglimento del ricorso, da parte del Comitato, della Camera o della Gran Camera, molto interessanti sono le conseguenze interne che ne derivano. Poiché il ricorso è sempre contro uno Stato e non è certo un mezzo d’impugnazione ulteriore della sentenza interna (ciò fondamentalmente perchè ogni Stato deve in primis cercare di garantire al proprio interno l’applicazione del diritto CEDU), quid iuris se la Corte stabilisce che in quel determinato caso una decisione non solo passata in giudicato, ma passata in giudicato in seguito all’esaurimento di tutte le impugnazioni interne, ha violato la Convenzione?

In Italia la Corte Costituzionale (sentenza n. 113/2011) ha ritenuto che la censura da parte della Corte EDU dia luogo a un caso di revisione della sentenza.

Nella Corte EDU si sta sviluppando tuttavia il concetto di “sentenza pilota”, secondo cui una volta che un principio è stato affermato la Corte non deve ulteriormente occuparsi del caso, ma lo Stato deve conformarvisi anche nei casi successivi. E per ragionare in termini interni sarà un problema di non poco conto valutare se e come Tizio possa ottenere la revisione se il suo ricorso viene respinto dalla Corte in quanto era già stato accolto in precedenza il ricorso di Caio.

Ricordiamoci il cambio di prospettiva: la Corte parla agli Stati, nel senso che valuta il loro comportamento. È ovvio che qualcosa dovrà essere raffinato (e l’onesta intellettuale dei nostri giuristi alla Corte lo ha premesso), ma sembra che una volta che sia stato affermato il principio con la sentenza pilota (di cui Tizio si giova chiedendo al giudice nazionale la revisione) non tutte le sentenze che non rispettano il principio pilota saranno censurate dalla Corte EDU, mentre una successiva sistematica violazione del principio pilota potrebbe portare a un’ulteriore censura.

Quindi: ben per Tizio (primo ricorso accolto). Ben per il cinquantesimo Caio (se dopo che la Corte lo ha detto allo Stato, quello Stato continua a non adeguarsi). Ma povero il primo Caio! Egli non ha alcuna garanzia che il suo ricorso venga trattato e accolto. Se il susseguirsi di impugnazioni interne gli hanno dato torto, vi sono ben poche possibilità che egli possa giovarsi all’interno del proprio Stato di un procedimento di revisione per violazione del diritto CEDU.

Il punto tuttavia non deve scoraggiare: il diritto CEDU è direttamente applicabile, nel senso che le norme interne devono essere interpretate nel senso conforme il più possibile alla Convenzione: quindi tutto il processo interno dovrebbe, da parte degli avvocati, essere impostato sin dall’inizio nel rispetto di essa, non solo dal punto di vista processuale, ma anche della corretta interpretazione delle norme sostanziali applicate.

Siamo stati poi introdotti al caso cui avremmo assistito il giorno seguente, relazionatoci da una giurista portoghese (già avevamo avuto, dal nostro Consiglio dell’Ordine, il testo della decisione della Camera e il parere dissenziente dei due giudici).

La ricorrente, Maria Isabel Lopes de Sousa Fernandes, cittadina portoghese, nel 2013 aveva presentato ricorso alla Corte EDU esponendo che nel il 26 novembre 1997 suo marito era stato ricoverato per un intervento di polipectomia nasale, eseguito il giorno seguente. Il giorno dopo l’intervento, il paziente era stato dimesso. Lo stesso giorno era tornato al Pronto Soccorso dell’ospedale lamentando un fortissimo mal di testa. I medici del Pronto Soccorso avevano ritenuto trattarsi di un problema risolvibile con tranquillanti e non lo avevano ricoverato, nonostante la richiesta in tal senso della moglie.

Il giorno seguente, 29 novembre, tornato all’ospedale, al paziente veniva diagnosticata una meningite batterica e veniva trasferito in terapia intensiva sino al 5 dicembre. Il 13 dicembre 1997 lasciava l’ospedale in condizioni definite dai medici come stabili. Poiché le sofferenze continuavano, ritornava per tre volte nello stesso ospedale e veniva ricoverato due volte, sino a che il 3 febbraio 1998 veniva nuovamente dimesso. Le sue condizioni peggiorarono e il 17 febbraio seguente veniva ricoverato in un diverso ospedale, dove veniva sottoposto a diversi esami. I medici, tra le diverse possibilità delle sofferenze individuavano, il 5 marzo, una possibile perforazione intestinale, mentre una radiografia e un’ecografia rivelavano un versamento addominale e un ulteriore esame individuava una rettocolite. Il 7 marzo 1998 al paziente veniva somministrato l’ossigeno e veniva visitato da un medico generico e da un chirurgo, che, alle ore 15, riteneva necessario l’intervento chirurgico “immediatamente”. I preparativi della sala operatoria e le necessità di una trasfusione di sangue facevano sì che l’intervento chirurgico venisse eseguito solo alle ore 20. Il paziente lasciava la sala operatoria alle ore 21.30 e decedeva il giorno seguente, alle ore 2.55 per setticemia causata da peritonite e perforazione intestinale.

In seguito a richieste di chiarimenti della moglie venivano svolti quattro procedimenti amministrativi, che escludevano una responsabilità medica. La ricorrente promuoveva un procedimento penale per omicidio colposo, che portava all’assoluzione del medico in quanto non vi era prova di una sua responsabilità. Infine, la moglie promuoveva una causa civile per risarcimento danni, che si concludeva con la reiezione della domanda in quanto non vi era prova che il decesso del marito fosse conseguenza di un trattamento non adeguato alla situazione clinica.

La sig.ra Maria Isabel Lopez de Sousa Fernandes si rivolgeva quindi alla Corte EDU lamentando la violazione dell’art. 2 della CEDU da parte dello Stato del Portogallo; art. 2 che lapidariamente esordisce: “il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge”, il che significa, secondo l’interpretazione che ne ha dato la Corte in casi già esaminati in passato, che lo Stato, tramite la legge, deve proteggere la vita dei cittadini, non solo nel senso di astenersi dal ledere il diritto alla vita, ma anche nel senso di porre in essere tutte quelle misure positive, sia legislative che amministrative, affinché sia vigente un quadro normativo che di fatto assicuri una tutela effettiva del diritto alla vita. Questo è il risultato cui ha portato la giurisprudenza della Corte attraverso alcune sentenze, che ci sono state illustrate.

Stupisce particolarmente (in positivo) che il sindacato della Corte si possa estendere non solo alle misure legislative, ma anche a quelle amministrative, in quanto ciò che conta è l’effettività della protezione del diritto alla vita. L’avvocato della ricorrente, il giorno seguente, avrebbe detto in udienza: in Portogallo abbiamo ottime leggi sanitarie ma, quando andiamo a vedere l’amministrazione sanitaria, la legge è totalmente inattuata e non si trova un medico negli ospedali durante il weekend.

Con decisione del 15 dicembre 2015 la Camera della Corte ha unanimemente ritenuto che vi sia stata violazione dell’art. 2 della Convenzione per quanto riguarda l’aspetto procedimentale: il che significa che tutti i giudici, all’unanimità, hanno ritenuto che il Portogallo non abbia dato risposta effettiva e tempestiva alla domanda “che cosa non ha funzionato?”. Ciò che la Camera ha censurato all’unanimità è che il procedimento, nel suo complesso (tra ricorsi amministrativi e procedimenti giudiziari), abbia richiesto 15 anni (dal 1998 al 2013, quando il caso è stato portato alla Corte) e che in realtà, al di là dell’individuazione delle responsabilità individuali (che potrebbero anche non esserci), il sistema portoghese non abbia saputo dire alla sig.ra De Sousa Fernandes perché suo marito è deceduto.

La violazione dell’art. 2 sotto l’aspetto procedurale (che viene correlato con l’art. 6, diritto a un equo processo, e con l’art. 13, che prevede il diritto a un ricorso effettivo davanti alle autorità nazionali) è importantissima poiché, come sottolinea la Corte nella decisione, investigare tempestivamente le cause della violazione del diritto alla vita non solo è un atto dovuto nei confronti dei parenti, ma è fondamentale, nei casi di malasanità, per poter migliorare tempestivamente le risposte per i casi futuri.

Se sull’aspetto procedimentale vi è stata unanimità, così non è stato per la violazione sostanziale dell’art. 2.

Nella pronuncia del 15 dicembre 2015 la Camera ha ritenuto che violazione sostanziale vi sia stata in quanto ha ravvisato nell’accaduto una mancata protezione del diritto alla vita. La Corte non entra nello specifico delle responsabilità, ma individua nella mancanza di coordinamento da parte del sistema sanitario portoghese (in particolare tra il reparto di otorino e il Pronto Soccorso) nel rispondere alle richieste di cure effettive da parte del marito della ricorrente, una mancata effettiva protezione del diritto alla vita.

Questa parte della sentenza è stata deliberata con cinque voti a favore e due contrari e il caso è stato devoluto alla Gran Camera su istanza del Governo portoghese.

Molto interessante è la lettura dell’opinione dissenziente dei due giudici, perché consente di raffinare il thema decidendum (come visto sopra, il passaggio dalla Camera alla Gran Camera non è un’impugnazione, ma una sorta di formazione della sentenza in itinere: alla Gran Camera non si impugna la sentenza della Camera, ma si rimette il caso). I due giudici dissenzienti osservano che la Corte non è un giudice di ultima istanza per i casi di negligenza medica: la Corte non ha competenze mediche, bensì si basa sui dati raccolti dai giudici nazionali e dalle commissioni amministrative. Se quattro commissioni mediche e due giudizi (uno civile e uno penale) hanno concluso per la mancanza di responsabilità, quale competenza specifica ha la Corte – scrivono testualmente i due giudici dissenzienti – per arrivare a una conclusione medica diversa? Si legge nell’opinione dissenziente: “noi non siamo qualificati a fare diagnosi mediche”. In realtà, una delle indagini mediche svolte a livello amministrativo aveva rilevato che la diagnosi della meningite era stata ritardata, ma vi è concordanza agli atti del fatto che il decesso, avvenuto oltre tre mesi dopo la diagnosi della meningite, non è stato causato dalla meningite, e comunque secondo i giudici dissenzienti di tale conclusione del procedimento disciplinare non si doveva tenere conto in quanto non ha poi fatto parte dei procedimenti in seguito censurati.

Se questo riguarda il fatto, altrettanto pregnanti sono i dubbi in diritto. Secondo i due giudici dissenzienti i casi in cui una mancata adeguata assistenza medica, poi risultata nella morte, è stata ritenuta dalla Corte come attribuibile allo Stato, e quindi ricondotta a una violazione dell’art. 2, sono casi di diniego di assistenza medica oppure di sistematica deficienza di essa. Ma non si può ritenere lo Stato responsabile nel caso in cui l’assistenza medica si sia rivelata di livello scadente. Non è la Corte che può stabilire il livello dell’assistenza medica che gli Stati devono fornire: esso dipende in primis da come gli Stati decidono di allocare le risorse disponibili. Se i cittadini – osservano i giudici dissenzienti – pensano che sia inaccettabile il tempo di attesa in determinate situazioni di urgenza, essi possono adoperarsi affinché siano allocate più risorse per le necessità del servizio sanitario, “attraverso il processo democratico”. Il che significa che la politica sanitaria e l’amministrazione sanitaria di uno Stato sono qualcosa di cui il sistema politico renderà conto agli elettori, non alla Corte. La Corte, sostengono i giudici dissenzienti, non può dettare le politiche sanitarie.

Notevole è il fatto che l’opinione dei due giudici dissenzienti, di cui uno il Presidente (che non sarà il Presidente della Gran Camera, che è il Presidente della Corte), sia verbalizzata e pubblicata con le ragioni del loro dissenso. Quando si ragiona a un certo livello, non c’è bisogno di finto consenso unanime. Le opinioni dissenzienti non sono “contro” la Corte, ma fanno parte di un dialogare che ha un fine comune: la migliore decisione finale possibile. Se non è fare squadra questo!

A questo punto, siamo finalmente passati in albergo e, dopo una breve sosta, ci siamo recati al ristorante dove ci aspettava una piacevole cena con ottimo rapporto qualità/prezzo.

Il giorno dopo, alle 8.30, siamo tornati alla Corte, passati i controlli decisamente efficienti.

Alle 9.15, puntuale, l’udienza è iniziata. Ciò che ha più colpito è stata la sobrietà del contorno e l’autorevolezza dei giudici, schierati in un collegio di diciassette più sostituti e assistenti per un totale di ventuno persone in toga. L’affabilità e la semplicità con cui si sono rivolti ai difensori non ha fatto che aumentare l’autorevolezza e così, dopo che l’avvocato della ricorrente (con appassionata difesa tecnica, mai alzando la voce o andando sopra le righe) aveva argomentato le ragioni del ricorso e che la rappresentante del Portogallo (non in toga in quanto riveste la posizione non di avvocato ma di “agente” del Governo) aveva riassunto la posizione dello Stato, per un totale di circa un’ora e mezza, alcuni giudici rivolgevano domande alle due parti.

La discussione in sé non aggiungeva molto rispetto a ciò che era emerso nella decisione della Camera (per la posizione della ricorrente) e nell’opinione dissenziente dei due giudici (per la posizione fatta propria dal Governo portoghese nel chiedere il rinvio alla Gran Camera), ma le domande su cui i giudici chiedevano chiarimenti stimolavano decisamente le parti a fornire alla Corte tutti gli elementi per una decisione il più ponderata possibile.

In particolare il giudice islandese, con cognome che suona italiano come quello di altri quattro giudici su venti compresi i sostituti (senz’altro è italiano il Presidente del Grande Camera, che è il giudice Guido Raimondi, Presidente della Corte), chiedeva ai difensori delle parti se la ricorrente, che lamenta innanzi alla Corte una mancata efficiente organizzazione del sistema sanitario portoghese, abbia svolto questa doglianza attraverso i rimedi interni, oppure abbia lamentato innanzi alle autorità portoghesi solo una deficienza e una responsabilità che riguardava lo specifico caso del proprio consorte. A questo punto il Presidente concedeva una pausa di circa mezz’ora, anche per consentire alle parti di preparare le risposte alle domande.

Nell’intervallo vi sono stati alcuni commenti tra noi. Alcuni hanno apprezzato molto il fatto che i giudici abbiano rivolto domande ai difensori, anche se tutti abbiamo ammesso che ciò, se da un lato richiede che tutti i giudici si siano ben studiate le carte, dall’altro implica che anche i difensori arrivino in udienza preparatissimi. Anche gli avvocati, in quest’ottica, potrebbero portare in giudizio solo alcuni casi, da preparare con la cura che meritano (gli altri dovrebbero essere definiti con strumenti alternativi al giudizio).

Alle 10 siamo rientrati in aula e in circa un’ora entrambe le parti rispondevano alle domande dei giudici. E pare proprio che sarà sulla domanda rivolta dal giudice islandese che ruoterà la decisione. Bene lo hanno capito i legali che sul punto, al rientro in aula, così rispondevano: l’avvocato della ricorrente non sfuggiva alla domanda e rispondeva che no, la ricorrente non aveva svolto lamentele contro il sistema sanitario portoghese, cioè contro l’organizzazione di esso (ma solo lamentele specifiche riguardo al decesso del proprio marito), in quanto nel sistema portoghese non è data una simile possibilità di sindacato generale riguardo all’organizzazione sanitaria. Quindi non si era trattato di una mancanza della ricorrente, ma di un ulteriore ostacolo posto dallo Stato; di non minore effetto era la replica della rappresentante del Governo portoghese, la quale sosteneva che era stato fatto tutto ciò che poteva essere fatto in base allo standard organizzativo dell’epoca (1997): casi di decesso in seguito a interventi chirurgici anche banali – ha detto – vi sono sempre stati e sempre vi saranno; l’infezione batterica (meningite) può essere la conseguenza di un intervento di polipectomia (lo è in una percentuale che va dallo 0,6 all’1%) per cause endogene (batterio già presente sul paziente), ma il decesso per uniformità dei pareri medici agli atti non è stato causato dalla meningite; se ciò che ha portato alla setticemia è stato causato da un’infezione contratta in ospedale, occorre considerare che oggigiorno si ha un’ampia consapevolezza di questa possibilità e che il Portogallo oggi ha un’organizzazione sanitaria adeguata, ma non si può giudicare l’organizzazione del 1997 con le aspettative qualitative del 2016.

Finita l’udienza (la pubblicazione della sentenza avverrà probabilmente nell’estate 2017), siamo tornati nella sala convegni dove abbiamo commentato lo svolgimento dell’udienza. E subito è stato chiesto al pazientissimo Luigi Dalle Donne se i giudici che si sono espressi nella composizione della Camera possono fare parte della Gran Camera: sembra che non ci sia una regola di incompatibilità (non essendo un’impugnazione), tanto che ne fa parte il giudice nazionale (nel caso, il giudice portoghese) in quanto considerato conoscitore tecnico del diritto interno che viene in rilievo; non ne fanno parte invece gli altri giudici.

Finita la riunione post-udienza, siamo tornati sul nostro pullman e ci siamo diretti di ritorno a Bologna.

Ragionando con la mentalità del nostro diritto interno facciamo fatica a vedere la responsabilità di uno Stato per un caso di malasanità che non ha riconosciuto nessun colpevole a livello interno. Ma da cittadini di uno Stato che ha aderito alla CEDU e potenziali fruitori del servizio sanità, probabilmente ci sentiremmo un po’ meglio se chi organizza quel servizio si sentisse dire dalla Corte che, in caso di un disservizio che causa una violazione grave alla salute (violazione del diritto a una vita decorosa) o addirittura lede in toto il diritto alla vita (decesso), lo Stato non può fare spallucce e dire “capita”, a prescindere dalla responsabilità civile o penale del medico. Perché se quel “capita” poteva essere tenuto in conto dall’organizzazione amministrativa del servizio, allora dovevano essere presi provvedimenti organizzativi per gestirlo. Altrimenti vi è violazione della Convenzione. Anche se non c’è responsabilità del medico; anzi, paradossalmente, proprio in caso di servizio sanitario totalmente carente (mancanza di personale, mancanza di macchinari diagnostici), il medico non sarà responsabile, ma lo Stato potrebbe esserlo.

Ancora una volta, la prospettiva è totalmente mutata. La Corte EDU non ha come compito solo quello di dare ragione o torto alle parti in causa. Non parla solo al ricorrente o allo Stato contro cui il ricorso è diretto: queste sono conseguenze necessitate dal meccanismo processuale. Addirittura, se si volesse vedere il tutto nella semplice ottica della tutela della ricorrente, il risultato sembrerebbe quasi offensivo: la Camera le ha riconosciuto un risarcimento equitativo di 39.000 euro per i soli danni non pecuniari, a fronte di una richiesta di 174.000 euro per danni pecuniari e 100.000 euro per danni non pecuniari. Se si pensasse che la risposta della Corte debba essere una semplice risposta al ricorso della sig.ra Lopes de Sousa, tutto questo non avrebbe senso: 39.000 euro per un caso di decesso a distanza di quasi vent’anni dall’accaduto!

Se invece si pensa che, grazie anche all’istituto della sentenza pilota, il principio espresso dalla Corte deve essere seguito dagli Stati contraenti, allora le conseguenze sono che la Corte “parla” a quarantasette Stati.

Le decisioni devono essere viste ben oltre il caso cui si riferiscono: vanno valutate in un’ottica di politica del diritto o, per usare un termine anglosassone che designa l’analisi degli effetti socio-economci dei provvedimenti normativi e delle decisioni giurisprudenziali, in termini di economic analysis of law. In questa prospettiva compito della Corte è non solo quello di vigilare sull’applicazione del diritto CEDU da parte degli Stati, ma anche quello di interpretarlo alzando, di tanto in tanto, un po’ l’asticella.

In un tempo in cui si tende a uniformare tutto verso il basso, la visita alla Corte Europea valeva ben diciotto ore di pullman in due giorni!

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Maurizio Conti