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Speciale inaugurazione anno giudiziario 2016

CORTE D’APPELLO DI BOLOGNA
CERIMONIA DI INAUGURAZIONE DELL’ANNO GIUDIZIARIO 2016
30 gennaio 2016

Intervento del Presidente del Consiglio dell’Ordine Distrettuale degli Avvocati

Sig. Presidente della Corte d’Appello, sig. Procuratore Generale, Arcivescovo, autorità tutte, magistrati del Distretto, colleghi avvocati, signore e signori, vi porgo il saluto dell’avvocatura di Bologna e dell’intero Distretto dell’Emilia-Romagna, a nome della quale ho l’onore di prendere la parola.

L’anno che ci lasciamo alle spalle è stato un anno duro, crudele, per l’avvocatura italiana e anche europea.

Il 9 aprile, dentro al Tribunale di Milano, un folle apriva il fuoco e uccideva il giovane avvocato Lorenzo Claris Appiani, che stava testimoniando in un processo penale contro un suo ex cliente. Sapeva che poteva essere pericoloso ma non aveva paura; figlio di madre avvocato, fratello di sorella magistrato, onorava il valore della giustizia. Aveva detto: “certamente testimonierò, nella vita bisogna avere coraggio”.

Il suo coraggio – come quello del magistrato Fernando Ciampi e del cittadino Giorgio Erba, che hanno perso la vita insieme a lui – si è infranto contro la violenza cieca di chi la giustizia la rifiuta, di chi di fronte alla ricerca e all’affermazione della giustizia cede all’accecamento dell’odio e alla imposizione della violenza, e la sua giovane vita si è sacrificata sull’altare di quei principi che noi, oggi qui riuniti, ricordiamo a noi stessi dover ispirare l’azione giudiziaria nel nuovo anno.

Il 25 novembre, nella Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, mentre al Quirinale l’avvocato Lucia Annibali, sfigurata nel volto dall’acido, riceveva dal Presidente della Repubblica il riconoscimento del Cavalierato per il suo coraggio, in quello stesso giorno così simbolico, un’altra avvocatessa, Raffaella Presta, veniva uccisa con fredda premeditazione.

Solo pochi giorni prima, a Parigi, la strage del Bataclan. La prima vittima identificata è stata quella di un altro giovane avvocato, Valentin Ribet, francese laureato alla London School of Economics: uno di quei giovani talenti che ci fanno sentire orgogliosi di essere europei e nelle cui mani affidiamo il nostro futuro, il mondo dove i diversi saperi si intrecciano in un circuito sovranazionale di fiducia e di speranza.

In un anno così difficile e luttuoso, caratterizzato dal sacrificio di tante, troppe, vite di avvocati – appartenenti alla fasce più esposte della professione: i giovani e le donne – abbiamo avuto il dono di una luce, che ci ha restituito la speranza: il conferimento del Premio Nobel per la pace a due avvocati, Abdetassar Ben Moussa, già Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Tunisi, e Mohamed Fadhel Mahfoudh, Presidente del Consiglio Nazionale Forense della Tunisia, componenti del “Quartetto del Dialogo”, per la loro opera di mediazione nel processo di democratizzazione della Tunisia dopo la “primavera araba” del 2011. Un riconoscimento che non solo ci restituisce la speranza, ma che esalta la funzione degli avvocati quali tecnici di costruzione della democrazia e custodi dei diritti fondamentali, dei principi costituzionali, della libertà.

Abbiamo espresso commozione e sdegno per la tragica sequenza di lutti che ha reso così doloroso per l’avvocatura l’anno appena finito; abbiamo abbracciato i nostri colleghi transalpini e lo facciamo di nuovo oggi, rinnovando i sentimenti di solidarietà e amicizia che animano il gemellaggio che unisce l’Ordine Forense distrettuale dell’Emilia-Romagna a quello francese di Tolosa, la cui Presidente e altra collega ci fanno oggi l’onore di sedere fra i banchi dell’avvocatura della nostra regione, annodando il filo solidale che unisce gli avvocati di tutta Europa.

Ma ci siamo anche fermati a riflettere sulle tante difficoltà che opprimono i professionisti legali, in un periodo di crisi economica che non accenna ad allentare la morsa; ci siamo spaventati, di fronte ai pericoli che in tanti corrono; ci siamo sentiti collettivamente deprivati e feriti, perché quando viene ucciso un avvocato muore sempre un po’ anche la libertà; ci siamo domandati, in definitiva, chi ce lo fa fare, se ne vale sempre e ancora la pena.

E ci siamo risposti, facendoci forza con il coraggio di Lorenzo Claris Appiani: certamente sì, gli avvocati continueranno con convinzione, con tenacia, con dedizione e con fiducia, a testimoniare che la giustizia deve essere inseguita e affermata sempre, soprattutto quando le condizioni sono difficili e avverse.

Guardando al futuro, in questo inizio d’anno, possiamo senz’altro dire che ci attende un anno di sfide. Di sfide non solamente per l’avvocatura, ma per tutti coloro che, a diverso titolo, abitano il processo e vivono la giurisdizione.

La sfida principale è, naturalmente, quella di cercare di far funzionare meglio la giurisdizione, per riavvicinare i cittadini – coloro nell’interesse dei quali l’azione giudiziaria è esercitata e la giustizia viene resa – a un’idea di giustizia che sia concreta, afferrabile, possibile, reale. Perché, in tutta franchezza, ciò che preoccupa l’avvocatura – e credo dovrebbe preoccupare tutti noi – non è tanto il fatto che la macchinosità e la durata eccessiva dei processi italiani possa allontanare gli investitori stranieri e deprimere i mercati, quale sembra essere l’unica preoccupazione dell’Autorità garante per la concorrenza e il mercato, ma è invece il fatto che una giustizia che non funziona allontana i cittadini dall’idea stessa di giustizia, la colloca in una dimensione chimerica che travolge la fiducia che deve invece sorreggere l’obbedienza civile, la condivisione diffusa dell’orgoglio di appartenere a una comunità civile, il riconoscimento dei diritti in funzione della consapevole assunzione dei doveri di ciascuno e delle responsabilità sociali di coloro cui spetta riconoscerli (il legislatore), coltivarli e difenderli (l’avvocatura) e affermarli (la magistratura).

In un “sistema giustizia” ideale – che funzioni, che deve funzionare – ciascuno deve svolgere al meglio il proprio ruolo, e l’avvocatura non vi si sottrae di certo. Gli avvocati, anzi, rivendicano con convinzione e orgoglio la funzione sociale della difesa, che deve essere svolta con rispetto della dignità della professione forense e di chi quotidianamente la esercita, fra tante difficoltà. Perché l’avvocatura non è ospite all’interno degli uffici giudiziari, ma vi accede – esattamente come i magistrati e gli operatori amministrativi – per svolgere la propria funzione, quale parte integrante della giurisdizione.

Proprio perché l’avvocatura non è un mero utente degli uffici giudiziari ma semmai è soggetto a pieno titolo protagonista della giurisdizione, da tempo gli avvocati hanno abbandonato l’attesa fatalista di una riforma taumaturgica del processo, e hanno cominciato a chiedersi – kennedyanamente – non tanto che cosa il legislatore può fare per migliorare la situazione, ma quanto invece possiamo concretamente fare noi, per cercare di contribuire a rendere meno gravoso, per tutti, l’esercizio quotidiano della giurisdizione.

E ciò l’avvocatura fa perché appartiene al fondamento del riconoscimento del ruolo sociale dell’avvocato: che è professionista libero, ma insieme partecipe necessario e istituzionale del servizio pubblico della giustizia. Un professionista che, a differenza degli altri professionisti, non si limita alla produzione di utilità economiche, ma ha anche la funzione di partecipare alla realizzazione dello stato di diritto, alla promozione e al mantenimento di quella legalità il cui valore trascende l’interesse dell’avvocato e anche l’interesse del cliente, per costituire il terreno comune di cultura per la realizzazione dell’interesse superiore della collettività sociale.

Con l’introduzione del processo telematico, l’avvocatura ha dato prova di grande maturità. A fronte di una rivoluzione epocale che rischiava di annichilire larghe fasce di professionisti, non nativi digitali o comunque riottosi al cambiamento, gli avvocati hanno dimostrato in breve tempo di avere la duttilità e anche l’entusiasmo per affrontare adeguatamente la sfida del processo telematico, che certamente per parte nostra può dirsi vinta: lo prova il fatto, a titolo d’esempio, che a Bologna e anche in larga parte del Distretto dell’Emilia-Romagna, i depositi telematici effettuati su base volontaria, là dove cioè non siano previsti dalla legge come obbligatori, sono in misura superiore al 50% rispetto ai depositi cartacei agli sportelli di Cancelleria.

Non credo in tutta franchezza che tale sfida possa dirsi vinta anche per gli altri operatori della giustizia. E’ avvilente leggere – come ancora capita – provvedimenti di giudici che invitano le parti a depositare copia cartacea di tutti gli atti e di tutti i documenti depositati telematicamente; è sconsolante subire rinvii delle cause perché il giudice lamenta che non siano state depositate le copie cd. di cortesia, non richieste come tali ma sollecitate come atto dovuto, difformemente alle ipotesi normative previste e alle stesse, esplicite e inequivoche, indicazioni del Ministero della Giustizia.

Più di tutto, colpisce il pericoloso tentativo di fuga dalla realtà, di rifiuto culturale dell’unica riforma che è invece rimasta possibile, dopo anni di tentativi vani di riforme sul rito, e cioè la riforma della organizzazione dei servizi di giustizia in chiave tecnologica, informatica, telematica: in una parola, moderna.

Gli avvocati leggono gli stessi identici atti che leggono i giudici, ma non si chiedono fra loro la copia cartacea di cortesia degli atti depositati telematicamente. Non di meno, l’avvocatura è consapevole che l’introduzione del processo civile telematico ha avuto e ha un forte impatto sulle cancellerie e sulle modalità di lavoro dei magistrati. L’avvocatura di questo Distretto, in particolare, ha fornito un sostanziale e pragmatico aiuto alla Corte d’Appello, investendo risorse materiali e umane a spese di tutti i nove Ordini Forensi dell’Emilia-Romagna, per la formazione e l’affiancamento tanto dei magistrati quanto del personale di Cancelleria nella delicata fase di avvio del processo telematico in Corte d’Appello. E altrettanto stiamo facendo, come Ordine di Bologna, offrendo una prima piattaforma di dialogo telematico alla Procura della Repubblica, a costo zero per l’ufficio e a cura e spese degli avvocati.

In precedenza, per rimanere all’ambito locale, l’Ordine degli Avvocati di Bologna aveva investito forti risorse nella informatizzazione del Tribunale, assumendosi l’onere e il costo della formazione non solo degli avvocati ma anche dei magistrati e dei funzionari di Cancelleria, con gli effetti e i benefici che sono sotto gli occhi di tutti, e che hanno fatto di Bologna un Tribunale d’avanguardia dal punto di vista dell’informatica e della diffusione del processo civile telematico.

Ma se, tutto sommato, l’allineamento – tecnico e culturale – alle nuove esigenze del processo telematico può dirsi nel complesso soddisfacente nel settore civile in Corte d’Appello e nei nove Tribunali del Distretto, negli uffici giudiziari penali e in quelli del Giudice di Pace (rimasto l’unico giudice di prossimità, dopo la soppressione delle sedi distaccate dei Tribunali) si registra al contrario una situazione di forte arretratezza, pericolosa in termini di incoerente disallineamento dei servizi di giustizia e foriera di gravi disagi, anche in relazione a una emorragia di personale amministrativo che solamente in parte, e comunque con tempi non certi, potrà essere assorbita dal ricollocamento dei dipendenti delle ex Provincie.

Non è tuttavia solamente il processo telematico che porta a un necessario ripensamento delle dinamiche processuali. In questi ultimi tempi abbiamo assistito a una sorta di mutazione genetica della giurisdizione, una volta intesa come tempio all’interno del quale i diritti e i contrapposti doveri trovavano solennemente la propria regolamentazione.

Oggi la dimensione sacrale della giurisdizione è assalita e abdicata da più parti, con l’introduzione di filtri conciliativi obbligatori (in organismi di mediazione e di composizione delle crisi da sovraindebitamento, e con la negoziazione assistita); con proliferazione di inviti a mediazioni anche in corso di causa; con gestione dei ruoli affidata in larga parte a giudici onorari o ausiliari: insomma, con un complesso di attività che restituisce con nettezza il disegno legislativo di un movimento centrifugo rispetto alla decisione.

Dobbiamo allora interrogarci su che cosa in effetti rimane della giurisdizione, come tradizionalmente intesa: una giurisdizione sempre più lontana dallo ius dicere, alla quale il cittadino può approdare, come premio, solamente dopo avere superato una serie di prove progressive, dove l’incontro con il giudice arriva solamente – ed eventualmente – dopo quello con il mediatore, nelle mediazioni obbligatorie a pena d’improcedibilità dell’azione giudiziaria; dopo quello con la controparte nella negoziazione assistita, anch’essa obbligatoria prima di causa; dopo quello con il giudice onorario cui viene oramai sistematicamente delegata la cruciale fase istruttoria, quando non la stessa emissione della sentenza.

Non sono tanto i nuovi istituti della mediazione e della negoziazione assistita che gli avvocati osteggiano, pur nella loro limitata utilità; ciò che rifiutiamo, oggi e sempre, è la concezione, pianificata e realizzata ope legis, di un processo modellato come una corsa ad ostacoli, che invece di avvicinare il cittadino alla giustizia che egli invoca, lo sottopone a prove di resistenza, psicologica ed economica, che ne fiaccano fatalmente la fiducia non tanto e non solo rispetto alla sua personale domanda di giustizia, ma su larga scala rispetto alla credibilità del sistema giudiziario del nostro Paese.

In questo senso, emblematici sono i recenti interventi normativi sugli indennizzi che ai cittadini spettano a causa della irragionevole durata dei processi italiani, ora sottoposti a una tale e tanta parte di adempimenti burocratici che sembrano fatti apposta – e credo che non si pecchi di malizia pensando che effettivamente sono fatti apposta – per far incorrere in qualche dimenticanza o inciampo, con l’effetto di disinnescare le richieste di risarcimento e potere così spendere in Europa risultati di contenimento raggiunti non con l’effettiva riduzione della durata dei processi, ma con l’artificiosa diminuzione del monte indennizzi versato alle parti che di tale irragionevole durata hanno avuto motivo di dolersi.

Ma c’è un altro aspetto che allontana l’idea di giustizia dai cittadini, ed è la sempre più frequente tendenza – realizzata più volte e in più uffici nel corso del 2015 e già prospettata anche in questo inizio d’anno – a ridurre gli orari e, addirittura, i giorni di apertura al pubblico degli sportelli di cancelleria degli uffici giudiziari, motivandola con una progressiva riduzione del personale che, se non è circostanza disconosciuta dall’avvocatura, non di meno non può essere posta a motivo di limitazioni che, semplicemente, sono contro la legge: come è noto, ma si finge di non sapere, esiste una legge (la n. 1196/1960) che impone l’apertura al pubblico delle cancellerie per cinque ore al giorno e per cinque giorni alla settimana; esiste una sentenza del Consiglio di Stato (la n. 798/2014), pronunciata su ricorso dell’Ordine degli Avvocati di Roma, che ha riaffermato questo principio, che è di rango costituzionale perché attiene alla possibilità di accesso alla giustizia da parte del cittadino, non tanto e non solo dell’avvocato; ed esiste una norma di modifica successiva (emanata con la legge 114/2014) che ha introdotto – solamente per i Tribunali ordinari e per le Corti d’Appello, e fra questi solamente per gli uffici telematizzati – la possibilità di riduzione dell’apertura degli sportelli ad almeno quattro ore quotidiane, sempre per cinque giorni alla settimana.

Non è soltanto per invocare il rispetto della legge, ma anche per garantire il funzionamento minimo del sistema giustizia, che l’avvocatura continuerà a non avallare e, anzi, a non tollerare e ad opporsi con tutte le proprie forze, invocando se del caso l’interruzione del pubblico servizio, ogni tentativo di indebita riduzione d’accesso agli sportelli di cancelleria, di ogni e qualsiasi ufficio giudiziario.

In questo nuovo anno giudiziario andrà oramai a completamento anche la riforma dell’ordinamento forense, rinnovato profondamente con la legge 247/2012, che ha sostituito l’obsoleto assetto ordinamentale precedente, che risaliva addirittura al 1933.

Per rimanere in anni lontani, come è noto già nel 1921 Piero Calamandrei mandava alle stampe il suo celebre libro “Troppi avvocati!”. Gli avvocati erano troppi allora e continuano a essere troppi oggi, intendiamoci. Ma non è il numero degli avvocati che dilata i tempi dei processi, che li rende più macchinosi, che ne aumenta la mole. Non è perché gli avvocati sono troppi che sono aumentati i procedimenti di sfratto per morosità, le procedure di fallimento, i procedimenti di protezione internazionale; non è perché gli avvocati sono troppi che si sono accresciute a dismisura le richieste di patrocinio a spese dello Stato da parte di soggetti non abbienti; non è perché gli avvocati sono troppi che sono aumentate le misure di prevenzione penali, o che si fanno i maxiprocessi alla criminalità organizzata, con le loro pesanti ricadute in termini organizzativi e di costi per la collettività.

Oltre tutto, la correlazione – facile, scontata, ma non reale – fra il numero delle cause e quello degli avvocati è smentita dai numeri: quelli che ha diffuso il Ministro della Giustizia nei giorni scorsi, e che parlano di 4,2 milioni di cause pendenti alla fine del 2015 contro i 6 milioni del 2009 e di un calo del 20% delle nuove iscrizioni a ruolo, in un periodo in cui l’avvocatura italiana, se pure ha smesso di crescere esponenzialmente, non ha smesso del tutto di farlo.

Il 2016 è anche l’anno in cui l’avvocatura, con l’emanazione oramai imminente di alcuni decreti ministeriali attuativi, completerà il processo di autoriforma avviato con la nuova legge ordinamentale forense. Finisce l’epoca – durata anche troppo a lungo – in cui per dirsi avvocati bastava vantare l’iscrizione amministrativa nell’Albo di un Ordine. Ma come ci ha insegnato Angiola Sbaiz, indimenticato Presidente della nostra Unione distrettuale e prima donna Presidente di un Ordine Forense in Italia, un conto è essere avvocato, altro è fare l’avvocato.

Per compiere la pratica forense non basterà fare il praticante in uno studio o svolgere tirocini alternativi, ma sarà obbligatorio frequentare le scuole forensi; per essere avvocato non basterà essere iscritto all’Albo ma occorrerà essere anche iscritti alla Cassa Forense (e già 8.000 avvocati per questo motivo si sono cancellati in Italia nel 2015); bisognerà esercitare in modo effettivo, continuativo e prevalente la professione, anche assolvendo puntualmente agli obblighi formativi, pena la cancellazione; per diventare cassazionisti, bisognerà superare un difficile esame; per diventare specialisti, occorrerà frequentare un corso di due anni, con esame finale.

Insomma, bisognerà proprio fare l’avvocato. Finisce l’epoca – finalmente – del “todos caballeros”, in favore di una selezione basata sulla effettività, sulla trasparenza, sulla competenza, sulla qualità: un’avvocatura al passo con i tempi, moderna, senza incrostazioni da decubito o ripiegamenti sul passato.

Un’avvocatura, inoltre, sempre più consapevole della propria responsabilità sociale e del proprio ruolo determinante nella giurisdizione e nella partecipazione ai servizi di giustizia. Quella consapevolezza che ha portato tanti Ordini forensi a costituire Sportelli di prima informazione ai cittadini; qui a Bologna, 35 avvocati svolgono bisettimanalmente il servizio presso l’Ufficio Relazioni Pubbliche del Comune, in piazza Maggiore, in piena intesa e collaborazione con l’amministrazione comunale. E altrettanti avvocati si apprestano a inaugurare, fra pochi giorni, analogo Sportello informativo per il cittadino all’interno del Tribunale, nella specifica e delicata materia del diritto di famiglia e delle persone. Il tutto in modo del tutto assolutamente gratuito, volontaristico e disinteressato.

E’ un servizio in favore della collettività reso dagli avvocati, soprattutto giovani; da quegli stessi avvocati che l’amministrazione pubblica della giustizia paga poco, male e con ritardi di due/tre anni quando svolgono la fondamentale funzione di difensori d’ufficio o con patrocinio a spese dello Stato; quella stessa avvocatura che ora, con una disposizione introdotta nell’ultima legge di stabilità, dovrà addirittura farsi carico di inserire direttamente nei sistemi informatici degli uffici giudiziari le liquidazioni dei propri compensi, gravandosi di costi ulteriori e di attività non proprie.

Faremo anche questo. E lo faremo perché siamo convinti che una buona organizzazione dei servizi di giustizia richiede necessariamente un impegno condiviso e suddiviso fra tutti coloro che della giustizia sono i protagonisti: i giudici, gli avvocati, il personale amministrativo.

Per fare ciò, bisogna naturalmente che gli operatori della giustizia – soprattutto gli avvocati e i magistrati – sappiano abbandonare sterili contrapposizioni e posizioni di retroguardia culturale, superando quel vizio genetico – una sorta di peccato originale – dal quale troppi, ancora, non sanno liberarsi: l’individualismo, fatalista e lamentoso, che impedisce di alzare la testa e vedere cosa succede dietro alla cattedra del giudice e oltre la scrivania dell’avvocato.

Quando avvocati e magistrati sono capaci di alzare lo sguardo, e di farlo insieme, i risultati sono incoraggianti: è successo e succede in tutti quei Tribunali, soprattutto nel nostro Distretto, dove il processo telematico è una realtà, anche grazie all’impegno e alle risorse profuse da un’avvocatura consapevole e motivata alla modernizzazione; potrà succedere ancora in tutti quei Tribunali dove la novità dell’ufficio per il processo sarà responsabilmente gestita d’intesa fra tutti i soggetti protagonisti della giustizia.

In questa opera di convergenza e mutuo soccorso, preziosa e fondamentale è l’attività motrice degli Osservatori sulla giustizia, sia civile che penale; così come fondamentale deve essere – come è nelle dichiarate intenzioni tanto del Ministro della Giustizia che del Vice Presidente del C.S.M. – la valorizzazione di nuove regole d’ingaggio e di nuove attitudini per i magistrati che saranno chiamati a ricoprire le funzioni direttive e semidirettive degli uffici giudiziari, rifuggendo – davvero e una volta per tutte – la logica stantia e sconfortante di designazioni compiute in obbedienza alle appartenenze correntizie.

E’ una speranza, spero non sia un sogno. Il coraggio dell’avvocato Lorenzo Claris Appiani sia il nostro, sia quello di tutti, così come sia nostra, di tutti, la speranza di un giovane magistrato del Tribunale di Bologna, Carlo Maria Verardi, che quindici anni fa, tre mesi prima di lasciarci prematuramente, all’Assemblea Nazionale degli Osservatori sulla giustizia civile a Salerno, diceva: “Forse è l’utopia di un gruppetto di reduci che si ostina a tenere i libri di Calamandrei sul comodino. O forse no. Molta strada insieme magistrati e avvocati l’hanno fatta. Si tratta di capire se vogliono continuare a camminare su una carreggiata unica, scoprendo magari che l’altro ha preso il senso opposto un attimo prima dello scontro, o se invece accetteranno di costruire con pazienzaun’autostrada su cui i cittadini possano camminare con più fiducia, possibilmente senza pagare un pedaggio troppo costoso, e a noi di camminarci con più dignità. Ci vorrà un bel po’ di cemento e di sudore, e l’allegria di chi, nonostante tutto, non ha smesso di crederci”.

avv. Giovanni Berti Arnoaldi Veli
Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Bologna

Intervento del Presidente della Corte di Appello (pdf) Intervento del Procuratore Generale (pdf) Intervento dell'Avv. Beatrice Belli (pdf) Intervento dell'Avv. Federico Canova (pdf) Intervento dell'Avv. Stefano Tirapani (pdf) Tavole inaugurazione Bologna (pdf)

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